Il vino nel seder di Pesach e il “simposiarca”

A poche ore da Pesach Massimo Giuliani ci aiuta a entrare nella festa con una riflessione su uno dei protagonisti del Seder: il vino

Rosh Ha ShanàImpossibile fare Pesach senza vino. Senza del buon vino. È un’ovvietà, ma poco ci si pensa e raramente si esplorano i “significati” di questa bevanda così ubiqua e ambivalente nelle Scrutture, nella prassi ebraica e nel mondo antico. Ambivalente il vino lo è non in se stesso, ma per il suo uso. Assunto in forma moderata, esso allieta il cuore degli esseri umani e contribuisce a fare festa, come ricorda il trattato talmudico Pesachim 109a: non può esservi ricorrenza gioiosa se manca il vino; d’altra parte del vino si può abusare, come fece Noach/Noè (forse perché ne ignorava gli effetti, essendo ritenuto il primo viticultore della storia umana), e perciò troviamo, specie nel libro dei Mishlè/Proverbi, molti ammonimenti contro il vino (bevuto in eccesso) “che finirà per morderti come un serpente” (23,32). Ma a Pesach il vino kasher ritma l’ordine, il seder, dello zikharon dell’uscita dall’Egitto. È la stessa Mishnà a fissare le bevute rituali in quattro specifici momenti del seder ossia della cena pasquale: tali norme si trovano al capitolo 10, l’ultimo del trattato Pesachim, là dove si elencano “quattro coppe”, sottinteso di vino, che vanno bevute obbligatoriamente, almeno da parte del capofamiglia che presiede e guida il seder pasquale. Si tratta di una festa di redenzione, e come tale la gioia è d’obbligo e il vino aiuta a gioire.

Rav Alberto Moshe Somekh (che ha curato la più recente traduzione annotata di quel trattato, per conto dell’Assemblea dei rabbini italiani) annota che il vino, il capofamiglia, «non se lo versa da solo, ma viene servito da altri in segno di libertà. Inoltre il verbo ebraico allude alla mescita del vino con l’acqua, perché al tempo della Mishnà il vino era troppo forte per potersi bere schietto» (p. 77). Allungare il vino con acqua o correggerlo con miele o spezie, anche per ragioni di conservazione, era normale nel mondo antico. Altro vino, durante il seder, può essere certamente bevuto oltre queste “quattro coppe”, ma non tra la terza e la quarta, per timore che ci si ubriachi e non si sia più in grado di terminare il rito familiare cantando l’Hallel, i salmi di lode e ringraziamento. Inoltre, non va posta enfasi sulle altre bevute, perché le “quattro coppe” prescritte sono altrettanti rimandi a citazioni bibliche che le spiegano e le giustificano; infatti i maestri le connettono con i quattro verbi della redenzione dall’Egitto contenuti in Shemot/Esodo 6,6-7: vi sottrarrò ai gravami degli egiziani; vi libererò dalla loro schiavitù; vi redimerò con braccio teso; vi prenderò come mio popolo…

Tavola del Seder Siddur Forli
Dettaglio di una illustrazione di una famiglia intorno al tavolo del Seder ( dal Siddur di Forlì, rito italiano)

Queste “quattro coppe” convergono in una quinta coppa, a livello simbolico, che viene posta in tavola ma non toccata, in quanto riservata al profeta Elia, che nel folklore religioso ebraico è il precursore del messia venturo e quindi è egli stesso figura messianica, prodromo della redenzione completa, sebbene nel Tanakh Eliahu hannavì sia associato tanto alla fedeltà al monoteismo quanto alla giustizia divina. A questo proposito si noti una differenza tra la ritualità italiana, che non pone enfasi su questa figura profetica, e altri riti della tradizione ebraica. La popolare, assai diffusa Haggadà shel Pesach curata da rav Alfredo Toaff, là dove si riempie la quarta coppa, prescrive che si leggano i versetti 6-7 del salmo 79: «Riversa la Tua ira sulle nazioni pagane (el goyim) che Ti hanno misconosciuto…» ma non riporta il canto Eliahu hannavì Eliahu hatishbì, che invece non manca mai nelle haggadot ashkenazite, dove è addirittura ordinato di aprire la porta di casa e si invitano i presenti ad alzarsi in onore del profeta che (in spirito) entra e partecipa al seder. Spesso la sua coppa è svuotata di nascosto per far credere ai bambini che davvero Elia s’è bevuto il suo bicchiere! Poi la porta è richiusa e si continua con l’Hallel.

In questo quadro teologico, durante il seder di Pesach il vino è usato anche per un’altra azione non meno simbolica: quando si legge l’elenco delle dieci piaghe inferte agli egiziani si è soliti intingere un dito nel vino e posarne la goccia sul piatto… come segno del sangue, o almeno del “caro prezzo”, pagato dagli egiziani nel processo che portò all’uscita dei figli e delle figlie di Israele dall’Egitto. Anche in questo caso c’è una profonda continuità tra il testo biblico e la prassi rabbinica, attestata dalla Mishnà e dal Talmud – il vino è spesso definito il sangue dell’uva – ragione per cui, da un punto di vista ebraico, è bene non separare il testo della Bibbia dalla sua ermeneutica rabbinica (ed è questa la ragione per cui il magghid – sulla seconda coppa di vino – non è una mera lettura di Shemot/Esodo ma già una collazione di midrashim su alcuni versetti biblici.

Non ultimo, si torni a riflettere sul ruolo centrale del capofamiglia, il ‘presidente’ ossia colui che guida il seder. Nella Mishnà, in Pesachim, è molto chiaro che si tratta di un vero onore e di una grave responsabilità, e che il buon compimento di questa mitzwà da parte dei partecipanti dipende soprattutto da lui. Oggi, che vigono costumi democratici, si tende a far leggere tutti, anche non in ebraico, pur di favorire la partecipazione. Ma in antico non era certamente così e il capofamiglia era anche il morè, l’istruttore e il maestro dei più piccoli. A ben vedere, quando nei secoli dei tannaim si elaborò il rito stesso, questa figura venne forse modellata su quella, assai nota nel mondo greco ed ellenistico, del simposiarca, ovvero colui che “ospitava” e “presiedeva” il simposio. Si trattava di un evento, non di un mero banchetto per gozzovigliare; era piuttosto una seduta di persone libere dedite all’amicizia e a conversazioni elevate (come attestato dal noto Simposium platonico). Ora, il simposiarca doveva avere, tra le sue virtù, quella di saper reggere egli stesso il vino e di somministrarlo – meglio, farlo somministrare – ai suoi ospiti nella misura della capacitas bibendi di ognuno: poco a chi lo regge poco, di più a chi lo regge meglio, ben miscelato con acqua a chi non lo regge proprio. Evitare che gli ospiti si ubriacassero era, dunque, una delle sue massime attenzioni: il vino doveva rallegrare, stimolare la conversazione e aprire i cuori, non certo ottenebrarli con i suoi “fumi” (i fumi dell’alcool). Questo equilibrio nel bere è anche una regola non scritta del nostro attuale seder di Pesach, affinché si celebri la liberazione del popolo ebraico con grande gioia ma restando lucidi e sempre vigili, comme il faut.

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