Cerca
Close this search box.

Otto donne e una Meghillah

Lo scorso Purim si è svolta nel tempio di Torino una cerimonia non nuova, ma ancora inusuale

la sinagoga di Torino, in piazzetta Primo Levi

Domenica 24 marzo, Purim. La lettura della Meghillat Ester delle 10,30 era stata debitamente annunciata nell’orario settimanale delle officiature, il bet hakeneset, il cosiddetto tempio piccolo di Torino, quello usato normalmente, è abbastanza pieno. Si avverte il pubblico che sarà necessario fare silenzio perché per uscire d’obbligo non bisogna perdere neanche una parola. Cala il silenzio. Si recitano le benedizioni e inizia la lettura: “Vahi bimè Achashverosh…” (“E avvenne al tempo di Achashverosh”). Tutto come al solito? Non esattamente. Perché il pubblico è composto esclusivamente di donne, e la persona che sta leggendo sul rotolo di pergamena con la cantillazione tradizionale di Torino sono io.

Sono emozionatissima, mentre leggo le prime righe la mia voce trema: ecco arrivato finalmente il momento che aspettavamo da un anno, quello che per molti mesi avevamo discusso, progettato, organizzato nei minimi dettagli. Dopo i miei primi due capitoli mi dà il cambio silenziosamente la seconda lettrice, seguita poi da altre sette, uno o due capitoli a testa.

Purim, nell’interpretazione di Luzzati

La lettura al femminile della Meghillat Ester non è certo una novità nel mondo ebraico italiano: a Roma e a Firenze si fa già da molti anni. E anche a Torino una decina di anni fa alcune donne avevano avuto la possibilità di ascoltare in un contesto privato Micol Finzi, figlia del nostro attuale Rabbino Capo, Rav Ariel Finzi. Credo, però, che sia stata la prima volta per l’ebraismo italiano ortodosso, in Italia (al tempio italiano di Gerusalemme accade già da tempo), in cui la lettura delle donne per le donne viene fatta ufficialmente in sinagoga con tutte le stesse regole e modalità della lettura maschile (o lettura per tutti, se così vogliamo chiamarla, benché nell’ascolto le donne siano decisamente penalizzate).

rav Ariel Finzi, rabbino capo di Torino

Nessun intento rivoluzionario, anzi, è proprio in omaggio all’halakhah e alla tradizione torinese che Rav Finzi fin dall’inizio ci ha imposto regole chiare: la vostra non può e non deve essere una lettura “di serie B”, quindi non può e non deve avere regole diverse da quelle relative alla lettura maschile: ognuna deve leggere almeno un capitolo e deve imparare a cantillare con la melodia torinese. Un rigore che all’inizio a qualcuna di noi era parso eccessivo, ma che in effetti si è rivelato essenziale perché ci ha portate a un risultato dal forte valore simbolico: una lettura fatta da donne che ha permesso ad altre donne di uscire d’obbligo. E per una funzione che non fosse “di serie B” la collocazione in sinagoga era l’unica possibile perché a Torino non esiste un altro locale altrettanto elegante e dignitoso.

Le otto lettrici sono diverse tra loro per età, conoscenza dell’ebraico, livello di osservanza, e anche per lo spirito con cui hanno affrontato questa impresa: alcune giudicano il divieto per le donne di cantare in pubblico arcaico e da superare, altre ci tengono a sottolineare che non sono state spinte da ragioni ideologiche ma semplicemente dal desiderio di avere una conoscenza più approfondita del libro di Ester. Alcune affermano di non sentirsi sminuite dal divieto di officiare. Forse sono io, figlia di un hazan (cantore) quella che ha sofferto di più per questo divieto, fin da bambina, quando venivano i ragazzini ad imparare da mio padre i pezzi che avrebbero dovuto cantare per il loro bar mitzvà: tutto un mondo di segni, suoni e regole di canto che mi era precluso. Per questo inizialmente ero stata la prima a spingere per la meghillah al femminile, anche se poi alla fine altre si sono impegnate ed entusiasmate anche più di me.

l’interno di una delle sinagoghe di Torino

C’è anche chi ha giudicato questo progetto troppo poco rivoluzionario: non è poi una grande conquista – mi è stato detto da qualcuno – che le donne possano cantare solo in presenza di sole donne; e poi non è una buona cosa che una Comunità si divida anziché prevedere attività per tutti. Sono obiezioni condivisibili, in effetti, ma personalmente ritengo che in alcune situazioni (per esempio nello studio) un gruppo di sole donne possa invece essere utile per aiutare ciascuna a trovare una propria voce che in un altro contesto non oserebbe tirare fuori.

E la funzione senza uomini ha prodotto anche un altro effetto: per un’oretta le donne hanno “occupato” pacificamente il tempio, si sono sedute nei posti degli uomini e hanno scoperto che da lì si riesce a vedere e soprattutto a sentire molto meglio. Almeno per un giorno è venuta meno quella sorta di rassegnazione data dall’abitudine che ci porta ad accettare di vedere e sentire poco perché sembra che non si possa fare diversamente. In realtà, se ci fosse la volontà, le soluzioni si potrebbero trovare: nell’ebraismo ortodosso è previsto che tra gli uomini e le donne ci sia una barriera di separazione, ma probabilmente si possono trovare idee alternative su dove e come posizionarla.

Ester e Mordekhai in un dipinto del XVIII secolo

Per concludere non posso fare a meno di ringraziare, insieme alle amiche che hanno intrapreso con me questa avventura, Rav Finzi e Micol Finzi, che ci ha pazientemente ascoltate e corrette in più incontri a distanza: chiunque siamo e qualunque cosa facciamo la solidarietà femminile è sempre molto preziosa.

Acquista il libro “Donne del mondo ebraico italiano”

Ascolta i podcast di Riflessi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Condividi:

L'ultimo numero di Riflessi

In primo piano

Iscriviti alla newsletter

Riflessi Menorah