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MILANO - 26 APRILE 1945
Giovanni Pagliarulo
Giovanni Pagliarulo, giornalista, presidente dell’Anpi.

Ho detto: il primo errore. E l’ho detto perché il Presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, ne ha commesso un secondo, a mio avviso molto più grave.

Prima di venire a questo secondo punto, premetto che nel sindacato, anzi, proprio nella Fiom, ho conosciuto anche Pagliarulo. Infatti, quando io lavoravo all’Ufficio stampa della Fiom nazionale, Gianfranco era responsabile dell’Ufficio stampa della Fiom di Milano. Siamo quindi, quanto meno, due ex-colleghi, e, sinceramente, non mi fa piacere polemizzare con lui. Ma mi vedo costretto a farlo, proprio ripensando a quei vecchi compagni che ho conosciuto in Cgil e alla Fiom.

Qual è, dunque, questo secondo errore? Mi riferisco a un pensiero formulato da Pagliarulo nel corso della conferenza stampa da lui tenuta il 15 aprile scorso per illustrare i programmi dell’Anpi per la ormai imminente ricorrenza del 25 Aprile.

A un certo punto di tale incontro, Pagliarulo si è trovato di fronte alla necessità di rispondere alle domande di un giornalista che gli chiedeva come mai l’Anpi, che si autodefinisce come associazione di partigiani e si propone di festeggiare, in quanto tale, l’anniversario della vittoria della Resistenza italiana contro l’occupazione della Germania nazista, sia oggi contraria all’invio di armi a sostegno di chi, in Ucraina, intende resistere all’occupazione della Russia di Putin.

Ebbene, a questo punto Pagliarulo si è avventurato in un’analisi storica volta a spiegare le differenze fra la Resistenza italiana al nazifascismo del ‘43-45 e l’attuale resistenza ucraina all’invasione russa. Nel settembre del ‘43, quando inizia la Resistenza italiana, dice Pagliarulo, la Seconda guerra mondiale era già in corso da alcuni anni. E questo, aggiungo io, è certamente vero. “Gli Alleati – afferma però incautamente l’appena rieletto Presidente dell’Anpi – sono in guerra contro la Germania e l’Italia fascista, per cui forniscono le armi alla Resistenza italiana al fine di chiudere al più presto la guerra, cacciando l’invasore nazista, e di conquistare la pace.” “E la Resistenza stessa – sottolinea Pagliarulo – si muove a tal fine.”

Ma non basta. Secondo lo stesso Pagliarulo, quella appena descritta “è l’ultima fase, diciamo così, di una guerra che il Patto d’Acciaio aveva sostanzialmente già perso”. Infatti, sempre secondo il Presidente dell’Anpi, “i tedeschi erano in ritirata”. “Questa”, chiosa infine Pagliarulo, “è una differenza abissale che spiega anche la ragione per cui noi siamo contrari all’invio delle armi.”

Ora mettiamo per un momento tra parentesi la questione della guerra di Putin contro l’Ucraina e soffermiamoci sull’interpretazione del significato storico della Resistenza che ci viene offerta dal vertice dell’Anpi. Non credo di sbagliare se dico che, in più di 70 anni di vita, non ho mai sentito una simile svalutazione della stessa Resistenza. Non l’ho mai sentita, voglio dire, neppure da parte degli aspiranti eredi della Repubblica sociale. I quali magari hanno accusato i partigiani di essere stati violenti e crudeli, ma non dei furbi opportunisti.

Invece, secondo il Pagliarulo pensiero, quando i primi partigiani italiani sono saliti in montagna, ovvero nell’autunno-inverno del ‘1943-44, e cioè quando Hitler occupava ancora mezza Europa, dalla Francia alla Polonia, dalla Danimarca all’Italia fino a Cassino, il Patto d’Acciaio – cioè, lo ricordiamo ai lettori più giovani, l’alleanza fra Hitler e Mussolini – aveva già perso.

Ecco, mi sono chiesto, se i dirigenti sindacali che ho elencato prima potessero rinascere, chi glielo spiegherebbe a Claudio Pontacolone – renitente alla leva della Repubblica sociale in quel di Savona, poi catturato dai repubblichini, condannato a morte, evaso – che quei nazifascisti che stavano per fucilarlo, “sostanzialmente”, avevano già perso?

E chi glielo spiegherebbe a Piero Boni, medaglia d’argento al valor militare, attivo nelle Brigate Matteotti e fra i protagonisti della liberazione di Parma, che non stava combattendo per la libertà ma per la pace?

E chi riuscirebbe, su questa base, a parlare con Luciano Lama, che partecipò con un ruolo dirigente alla liberazione di Forlì, del senso della morte del suo fratello minore, caduto in combattimento da partigiano?

Bruno Trentin sindacalista
Bruno Trentin

E che dire di Bruno Trentin? Quando a 17 anni entrò in clandestinità a Milano, aderendo a una formazione di Giustizia e Libertà (nome di battaglia, Leone) cosa pensava di fare: di battersi per una generica pace? O che dire di Pio Galli, anch’egli salito in montagna, sopra Lecco, a 17 anni? Forse immaginava che, per vincere, fosse sufficiente fare qualche scaramuccia contro un nemico in ritirata?

Su Vittorio Foa, invece, non mi sono posto domande. In primo luogo perché lui, essendo più anziano degli altri sindacalisti citati, aveva fatto in tempo a farsi mettere in prigione dai fascisti già nel 1935, e quindi ben prima che iniziasse la resistenza armata. E poi perché, dovesse rinascere, non vorrei affrontare il suo sarcasmo di fronte a una domanda sbagliata.

Concludendo. Mi pare di poter dire che il mio ex-collega Pagliarulo ha fatto una confusione, spero non voluta, ma sicuramente inaccettabile, fra due concetti: libertà e pace. O meglio: fra lotta per la libertà e pacifismo.

I partigiani, come ci dicono anche le parole delle loro canzoni, volevano riconquistare la libertà. E visto che i loro oppressori non erano tipi ragionevoli, per riconquistarla hanno scelto di combattere “le armi alla mano”. E di combattere per vincere. Dopodiché, quando uno ha vinto e il suo nemico è stato sconfitto, ovviamente c’è la pace. Ma prima della pace è necessaria la vittoria. E infatti, scopo della Resistenza era sconfiggere i nazifascisti per riconquistare la libertà.

Invece, nelle parole di Pagliarulo i partigiani smettono quasi di essere dei combattenti, tanto “i tedeschi erano già in ritirata”, e diventano dei pacifisti ante litteram. E siccome l’attuale Anpi è erede dei partigiani, ed è dunque un’organizzazione pacifista, guarda alle armi con sospetto e pensa che non vadano inviate all’Ucraina. La quale, tra l’altro, è assai lontana dalla vittoria visto che lì, gli uomini di Putin, non hanno ancora cominciato a ritirarsi.

Non mi fa piacere dirlo, ma questo ragionamento mi pare grottesco. Comunque, Ucraina e Russia a parte, quello di cui mi sento ragionevolmente sicuro è di poter dire che i partigiani che ho conosciuto io non avrebbero accettato quella svalutazione del ruolo della Resistenza italiana che mi pare emerga dalle parole di Pagliarulo.

E ciò anche perché, prima che strettamente militare, il ruolo dei combattenti della Resistenza fu consapevolmente un ruolo politico. Fu cioè volto non solo a contribuire alla vittoria militare degli Alleati ma, come ebbe a dire Ferruccio Parri, a ottenere “il riscatto, di fronte al mondo e all’avvenire, dell’onore nazionale”. Si trattava, insomma, di contribuire alla vittoria militare degli Alleati per ottenere uno scopo politico: fare dell’Italia un paese libero. E questo obiettivo, nell’autunno-inverno 1943-44, appariva sicuramente a tutti come molto difficile da raggiungere. Molto difficile e molto rischioso. Ed è veramente strano dover riaffermare oggi questa elementare verità polemizzando col vertice dell’Anpi.

Comunque, W il 25 Aprile.

(Questo articolo è stato pubblicato su ildiariodellavoro.it)

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