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Il mio Tikkun per mezzo della musica

Da più di trent’anni Francesco Lotoro va alla ricerca della musica concentrazionaria, in grado di restituirci le melodie suonate nei lager, ma anche la storia degli uomini e delle donne che le composero e le eseguirono

Maestro Lotoro, come è nato il progetto di raccogliere la musica concentrazionaria in una Cittadella?

Francesco Lotoro

Il progetto è nato 33 anni fa, quando ancora non esisteva Internet, non c’erano i social né esisteva la connessione globale di oggi. Mi convinsi a quel tempo, quando ero poco più di un ragazzo, che si potesse raccogliere tutta la musica prodotta non solo nei lager nazisti, ma anche nei luoghi concentrazionari dell’unione sovietica di Stalin, abbracciando cioè un periodo che va dal 1933 al 1953. Il mio scopo era ed è realizzare una ricerca in una chiave di lettura musicale e musicologica, il che significa raccogliere ogni materiale musicale, nelle sue varie forme: non solamente la musica su carta, convenzionale, ma anche quella che si può ottenere per mezzo di diari, ricordi o anche interviste, che arriva magari da generazioni passate, oppure ricordata a memoria, musica nata da un compositore cha ha perso la carta durante l’evacuazione o comunque nel campo e l’ha ricostruita dopo la guerra, se è sopravvissuto. Insomma, l’attività di ricerca e raccolta ha varie sfaccettature.

in queste immagini il maestro Lotoro in viaggio alla ricerca di musica concentrazionaria. Qui è con con la ricercatrice tedesca Eleonore Philipp

Una ricerca lunga oltre trent’anni è l’impegno di una vita. Può dirci qualcosa sull’inizio?

Il focus naturalmente è stato subito soprattutto sulla musica ebraica, prodotta dei treni o nei campi. Ho cominciato così, ma dopo quattro anni si è espansa la forchetta sociale. Nel senso che ho ritenuto di dovermi occupare di tutta la musica prodotta in tutte le tipologie di cattività conosciute nel Novecento: questo significava che entravano in gioco tutte le componenti nazionali, sociali, o religiose che in un modo o nell’altro, per le più diverse ragioni – da quelle pseudo razziali a quelle attinenti alla disabilità o a ideologie ostili al nazionalsocialismo – hanno contribuito a costruire l’ingranaggio della macchina di morte del Reich e dei paesi alleati dell’Asse. Da lì, allargando ancora la forchetta sociale, ho tenuto conto che si dovesse partire necessariamente prima dello scoppio della guerra, ossia dal 1933, perché la macchina dei lager parte due mesi dopo la salita al potere del nazionalsocialismo, ossia nel marzo ‘33, quando viene aperto il campo di Dachau. Per le stesse ragioni, non si poteva finire questa ricerca il 9 maggio 1945, perché dopo la guerra compresi che bisognava interessarsi anche della vicenda dei gulag, aperti già nel 1919, all’indomani della fine della prima guerra mondiale, vicenda sospesa durante la II guerra mondiale, quando occorrevano braccia e menti che andassero a far parte dell’esercito sovietico nella grande guerra patriottica, e poi riavviata con la fine della guerra. In questo modo ecco che la ricerca ha finito per abbracciare vent’anni di musica, dal 1933 al 1953.

Arturo coppola e Biovannino guareschi, “Bertoldo” (stalag sandbostel)

In questa ricerca, una vera impresa, lavora da solo o ha uno staff?

Oggi ho una squadra di collaboratori, ma la ricerca sul campo, quella la svolgo ancora da solo. Oggi posso lavorare su un database materiale, conservato nei computer della Fondazione: decine di migliaia di fogli; e su un database immateriale, ossia tutta l’esperienza maturata in questi anni.

È stata dura?

Come può immaginare, all’inizio non solo c’era una solitudine fisica, ma anche una solitudine economica. Oggi mi dico che se fin dall’inizio avessi potuto usufruire del modesto contributo economico che oggi sostiene il progetto avrei potuto quantomeno dimezzare gli anni di ricerca.

Come è nato il progetto Cittadella?

Beniaminow. Arturo Coppola, sdraiato al centro, guarda la fotocamera

Il progetto Cittadella nasce in base a un bando nazionale istituito sotto il governo Renzi, nell’ambito di un progetto di restauro di aree urbane degradate o periferie. Si ritenne così che la città di Barletta potesse candidarsi per riqualificare l’area della ex distilleria; presentammo il progetto e vincemmo. Dopo il primo finanziamento, ovviamente insufficiente, abbiamo atteso l’individuazione di nuovi strumenti tecnici, mentre si succedevano 4 governi.  Adesso finalmente l’accordo di programma firmato dovrebbe essere lo strumento che ci permetterà di accedere a maggiori finanziamenti. Spesso ho cercato di accattivarmi, in senso buono, aiuti dal mondo ebraico, che però non sono mai arrivati; è dura a dirlo, ma capisco che l’ebraismo abbia altre priorità. Mi piacerebbe però che un giorno tra queste priorità ci sia anche il lavoro della Cittadella. Come mi ha insegnato il mio maestro, rav Scialom Bahbout, quello che fa un ebreo si riverbera anche su tutti gli altri, perché siamo legati uno con l’altro.

Alexander Kulisiewicz

La Fondazione è un ente pubblico?

La Fondazione è un ente privato di diritto pubblico, è un istituto di letteratura musicale concentrazionaria. La Regione partecipa con dei finanziamenti, cui si aggiunge qualcosa a livello statale ed europeo. L’Ucei è socio fondatore per volontà del presidente Gattegna (rinnovata dalla presidente Di Segni), il quale volle istituire a Barletta un polo nazionale della musica ebraica, che nel frattempo si è implementato a dismisura per una serie di importanti donazioni, come quella di Emanuele pacifici, per volontà di suo figlio Riccardo. Mettere in moto la Fondazione ha richiesto uno sforzo lungo sei anni, anche a causa del Covid. Oggi finalmente abbiamo uno staff e una sede.

Vorrei entrare più nel dettaglio del suo lavoro; scusi la domanda ingenua, ma come si fa a trovare andare a trovare la musica concentrazionaria?

A Gerusalemme con i ragazzi dell’orchestra giovanile israeliana del kkl

Ci sono diverse fonti. Ovviamente una di queste ha a che fare direttamente con i sopravvissuti. All’inizio, quando cominciai, ce n’erano molti di più, naturalmente la vita fa il suo corso. Chi è ancora in vita oggi aveva all’epoca tra i 12 e i 14 anni. Anche loro hanno dei ricordi musicali, ma ovviamente stiamo parlando di pesi specifici un po’ diversi, tutto va comunque registrato. Si può piuttosto notare come spesso assistiamo a una staffetta dei ricordi: la memoria passa ai figli e ai nipoti, che spesso conservano materiale cartaceo, fonografico, documentaristico.

Quando parla di questo materiale, intende partiture musicali?

Con Hilde Zimche, ultima violinista dell’orchestra femminile di Birkenau

Non solo. Ogni partitura ha un vissuto esistenziale non indifferente, che va quindi ricostruito con lettere, materiale fotografico, registrazioni varie (ad esempio quelle realizzate dalla Fondazione Spielberg, che ha realizzato 65.000 interviste, e in migliaia di queste ci sono persone che suonano e cantano). Tutto questo materiale deve essere messo, per così dire, a regime, come coronamento di ogni singola partitura. Per riuscirci c’è da viaggiare, andare laddove la musica non è stata codificata, incontrare persone che ricordavano a memoria ancora tante canzoni. È un fatto che la musica non ci arriva sempre in maniera convenzionale.

Che significa? Ad esempio una persona che non è un musicista si ricorda un motivo lo canta e lei riesce a tirar fuori la partitura?

Analisi dei manoscritti musicali conservati al Terezin museum

Sì. Molte persone non sono musiciste, oppure lo erano ma praticavano musica leggera, quindi non hanno mai ritenuto di stendere di codificare una partitura. Queste persone testimoni non hanno prodotto quella musica, ma l’hanno sentita e questo avvia un processo in cui ricordano altri nomi, con un effetto domino: ecco così che la ricerca improvvisamente si riapre andando a completare un puzzle enorme.

In questa ricerca ha ormai un’idea delle proporzioni sul numero dei musicisti che sono passati per i campi e sul numero di opere che sono state create nei campi?

Il numero dei musicisti che hanno creato musica in una realtà concentrazionaria, tra il 1933 e il 1953, ha ormai superato le 9.000 biografie, con oltre 8.000 partiture già recuperate. Si tratta di un numero arrotondato per difetto, che purtroppo non posso aggiornare, in quanto il materiale pervenuto o rintracciato è diventato così tanto che in questo momento posso solamente inventariarlo. Si tratta di un processo lungo e costoso, in cui spesso la macchina burocratica rimborsa solo a consuntivo. Detto questo, contiamo, in 2-3 anni, di poter avere quantomeno un’idea approssimativa del materiale raccolto e catalogato.

Wally Karveno, concertino per pianoforte e orchestra da camera

Quindi spesso parliamo della carta, cioè del documento fisico su cui era stata scritta la musica.

Quando all’inizio ho cominciato per me era già il massimo ottenere delle fotocopie; per esempio con i mezzi a mia disposizione non mi era possibile registrare in audio e in video i sopravvissuti. Oggi, al contrario, viaggio sempre con qualcuno che filma e fotografa le persone che incontro. E poi ci sono i documenti che riceviamo. Proprio qualche giorno fa, prima dell’incontro al Quirinale [per il Giorno della memoria, n.d.r.], abbiamo ricevuto dal dottor Dominique Losay, venuto appositamente da Parigi, un prezioso quaderno che suo padre André stese in prigionia.

È la dimostrazione che la Fondazione comincia avere un’autorevolezza internazionale.

Sì, perché questo non sarebbe stato concepibile vent’anni fa. A questo hanno contribuito anche i media internazionali, come ad esempio il documentario prodotto dalla CBS nel 2019, dopo due anni di riprese. Dopo la messa in onda, nel febbraio 2020, fui invitato da una signora nel Michigan a ritirare personalmente il violino utilizzato ad Auschwitz da suo marito; promisi che l’avrei fatto restaurare ed è stato quel violino a essere suonato al Teatro dell’Opera lo scorso 25 gennaio e al Quirinale.

Frida Misul, cantante italiana deportata ad Auschwitz Birkenau

Questa musica veniva composta o comunque veniva eseguita su indicazioni dei carnefici?

Occorre fare chiarezza. Mi rendo conto infatti che certe volte non si percepisce che la fenomenologia musicale nei campi era molto molto più complessa e articolata di quello che si pensi. È chiaro che in questa complessità c’è anche l’uso perverso della musica, per esempio per segnalare il lavoro dei Sonderkommando o per le esecuzioni capitali nel quale l’orchestrina accompagnava il deportato alla pena capitale. È dimostrato inoltre che gli ufficiali nazisti, dopo le operazioni di gasazione a Birkenau, andavano a ascoltare Schumann suonato dall’orchestra femminile di Birkenau. Attenzione però perché non ci fu solo questo uso perverso della musica. In realtà si faceva molta altra musica.

 In che modo?

Pur con tutte le restrizioni del caso, con tutti i controlli della censura, soprattutto sui testi, nei Lager si faceva musica. Per un tragico paradosso, lì dove non c’era alcuna libertà, alle vittime si riconosceva uno status che fuori era scomparso da anni: gli ebrei nei Lager potevano comporre e suonare musica, cosa che era vietata all’esterno.

Bar Ilan University, Lotoro analizza alcuni manoscritti di Arieh Ben Erez Abrahamson con la figlia Hannah

Non immaginavo che si potesse scrivere ed eseguire musica.

Benché ristretto, c’era l’uso della pratica musicale, in alcuni campi sino al 1942. Nel ghetto di Varsavia era proibito suonare Chopin ai musicisti ebrei, ma la realtà di un campo di concentramento era molto più complessa. In quella realtà spesso le autorità compresero che azzerare la libertà umana oltre un certo punto avrebbe comportato il rischio di rivolte, come era talvolta accaduto. Quindi si cercò in un certo senso di “equilibrare” il lavoro; del resto nei campi c’erano anche campionati di calcio o di scacchi, addirittura corsi universitari. La musica fu un modo per reprimere il rischio di rivolte, toglieva ossigeno a quelle energie che naturalmente sarebbero esplose.

York (Gran Bretagna). Con la figlia di Hans Gal

Chi eseguiva questa musica nei campi?

Ad Auschwitz c’erano tra 7 e 9 orchestre funzionanti, senza parlare dei tantissimi strumenti circolanti e musicisti che li usavano, che avevano viaggiato con loro nei treni. Ci sono poi varie fonti che attestano la confisca di strumenti nei negozi musicali, che potessero quindi rimpolpare il parco strumenti dei campi. Ad un certo punto in alcuni campi ci fu la possibilità di portarsi dietro il proprio strumento musicale, come ad Auschwitz e a Buchenwald, dove era presente un’orchestra di ben 84 elementi.

Torniamo alla sua ricerca. C’è un obiettivo che si è dato?

Spesso ho detto che se mi venissero forniti gli strumenti economici fin dall’inizio, certo avrei potuto finire la ricerca con me in vita… Naturalmente non siamo più all’età della pietra della ricerca, ma nemmeno all’età dell’oro. Tuttavia credo che ormai qui a Barletta abbiamo avviato un centro che svolge un po’ il ruolo che, in generale, svolge Google: l’Italia diventerà “il Google della ricerca musicale concentrazionaria”. Barletta sarà così l’Hub internazionale della musica concentrazionaria e non per niente lo Stato ha dato molta attenzione e finalmente si sono sciolti gli ultimi legacci burocratici e questa è una conquista. In ciò credo di perseguire un obiettivo molto ebraico: testimoniare la soff

Stoccolma. Lotoro con Hanus Weber, unico figlio sopravvissuto di Ilse weber

erenza della vittima per noi è un dovere, perché noi ebrei abbiamo l’esercizio della memoria.

Rintracciare e conservare queste carte ha anche una funzione storica?

È difficile inquadrare questo lavoro se non si comprende che quello musicale è un elemento di completamento di un lavoro storico. Si dimentica che sono proprio quelle componenti antropologiche più fortemente umanistiche, quali la musica e l’arte in genere, a rimanere una testimonianza tra le più attendibili e meno falsificabili; laddove una foto può essere alterata, un filmato può essere manipolato e i documenti nascosti, la musica non è manipolabile né è pensabile immaginare un complotto di migliaia e migliaia di musicisti. Questa musica è un argomento contro i negazionismi di varia natura.

Varsavia. Con Maria Stachurska, nipote di Henryk Leszczinski deportato a Mauthausen

Quest’opera che la impegna da una vita la possiamo leggere come un tentativo di tikkun, una forma di riparazione di quello che è stato depredato di tutte queste vite?

È esattamente così. La musica che raccogliamo e conserviamo è il modo per adempiere al precetto di prediligere la vita. Vorrei credere che ogni spartito sia il sefer di chi lo ha scritto. Noi abbiamo il dovere di ricordare la persona che ha voluto lasciare il proprio testamento in forma di musica. Abbiamo cioè il dovere di recuperare questa grande voragine che si è creata nel ‘900. Dobbiamo essere consapevoli che qui siamo dinanzi a una vera letteratura, anche se sappiamo che rimarrà sempre la cicatrice abbiamo il dovere di salvaguardare questo patrimonio del Novecento, anche se con un secolo di ritardo.

Hillebrand, Bay city (Michigan), con Hanna e il violino di suo marito Jon Hillebrand

Un’ultima domanda legata alla sua biografia. È difficile svolgere questa attività, e più in generale, essere ebreo, al sud?

Sia io che mia moglie ci siamo convertiti nel 2004, anche se poi ho scoperto che ebreo era il nonno di mio nonno. Ovviamente io vivo in un contesto molto lontano dall’ebraismo; qui a Barletta gli ebrei siamo solo io e mia moglie. Credo che questa mia identità, emersa dopo che avevo già avviato la mia ricerca, abbia certo influenzato il mio lavoro.

con il violino restaurato

Se penso ad esempio che raccolgo anche la musica di autori tedeschi imprigionati in Unione Sovietica, mi dico che è qualcosa che non avrei mai immaginato, ma non dobbiamo dimenticare che nell’arca di Noè salirono tutti gli animali, domestici, selvatici e feroci, persino gli insetti. Dicono i maestri che tutti dovessero partecipare a un processo di redenzione. Quindi anche per questo dico che l’etica ebraica sostiene questo progetto, bisogna recuperare la musica di chiunque abbia conosciuto.

4 risposte

  1. Francesco Lotoro è un Artista straordinario, un Uomo colto, buono e generoso, un Ebreo profondo e ben consapevole dei compiti che la Storia ha affidato a ciascun Ebreo.
    Ciò che ha realizzato e sta eseguendo a Barletta con la Cittadella della Musica Concentrazionaria ha dell’incredibile e quindi tutti hanno l’obbligo di aiutarlo in ogni modo.

  2. Il Maestro Lotoro è un brillante musicista ebreo con una grande anima. Spero che un giorno possa aprire un centro con i frutti del suo santo lavoro anche in Israele, patria naturale del popolo di Israele

  3. Uno splendido articolo che e’ la storia di un uomo, di un artista, il racconto di una passione e la testimonianza di un’esperienza coraggiosa, forse all’inizio utopistica, che con grande determinazione ha riportato alla luce suoni e vite sommerse. Francesco e’ un esempio di come non tradire i propri obiettivi. Un “ folle volo” che ha permesso a tutti noi di volare.

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