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Rav Roberto Della Rocca

Il futuro dell’ebraismo Italiano? Studio, consapevolezza, fantasia

Rav Roberto Della Rocca, 61 anni, è uno dei maestri di riferimento non solo dell’ebraismo romano, come testimoniano le sue lezioni, che da quando sono on line a causa della pandemia vengono seguite da studenti di varie età di tutta l’Italia ebraica. Una laurea in legge oltre che rabbinica, è stato rabbino ad Ancona e rabbino capo della Comunità ebraica di Venezia. Oggi dirige il DEC, il Dipartimento educazione e cultura dell’UCEI.

Caro Rav, qual è secondo il tuo punto di osservazione privilegiato quale direttore del dipartimento educazione e cultura dell’Ucei lo stato di salute dell’ebraismo italiano?*

L’ebraismo italiano è in gran parte assimilato, ma soprattutto poco consapevole, pur con varie sfumature e distinzioni, dei propri fondamenti culturali e religiosi.  Nascondersi dietro a quel luogo comune, comodo quanto banale, per cui l’ebraismo ognuno lo interpreta a suo modo” ha fatto sì che buona parte dell’ebraismo italiano è scivolata nella deriva dell’inconsapevolezza e della confusione. Non credo che l’ebraismo italiano debba essere di un solo tipo, sono convinto, tuttavia, che sia doveroso essere quello che si è consapevolmente e su basi culturali ed esistenziali meditate. Questo all’ebraismo italiano nella sua maggioranza manca. È inevitabile quindi che persistendo in questa pericolosa confusione anche il rabbino diviene spesso non solo un esecutore e un testimone solitario di un sistema di vita estraneo ai più, inascoltato predicatore di scomodi doveri ed elargitore di dispense da obblighi rituali, ma sempre più svilito alla funzione di un intransigente gendarme. D’altronde l’alternativa sarebbe quella di un notaio compiacente strumentalmente interpellato per legittimare consolidate abitudini in nome di una malintesa antica tradizione. Nascondersi che l’ebraismo italiano rischia di dividersi su alcuni problemi sarebbe ipocrisia. Una qualche forma di divisione si è già di fatto realizzata. Si tratta ora di vedere se faccia bene a un ebraismo di poco più di 25.000 iscritti dividersi e dare l’avvio a nuove polemiche e a nuove fratture. Il bene dell’ebraismo italiano lo si fa probabilmente con uno sforzo di unità e, in questo intento, con un grande sforzo di fantasia.

“Futuro” mi sembra una parola chiave per affrontare il tempo che abbiamo davanti. Vorrei aggiungere anche altre parole: “giovani”, “memoria”, “identità”. Nel tuo elenco personale quali ci sono?

 

Alle giovani generazioni va proposto un impegno serio e propositivo, di studio e di attività, che permetta loro una crescita autonoma della propria identità ebraica, preparandoli nello stesso tempo al confronto con la società e la cultura circostante. Solo così non diventeranno la sbiadita fotocopia dei loro genitori   dei   quali   fra   l’altro non hanno potuto condividere l’esperienza storica. Siamo testimoni del fenomeno di ragazzi che frequentano per anni le istituzioni socio-educative ebraiche e che poi repentinamente si allontanano. Non siamo abbastanza consci che l’inadeguatezza dell’educazione ebraica dovuta soprattutto alla mancanza di un obiettivo definito che riguarda il tipo di ebreo che vogliamo aiutare a formarsi attraverso il processo socio- educativo. Stare in classe con altri ebrei nell’infanzia, come anche nell’adolescenza, non assicura certo un impegno ebraico continuo e leale dei più giovani quando essi lasciano tale ambiente e raggiungono quello dei loro coetanei non ebrei.  Affinché l’ebraismo sia considerato importante nella vita dei nostri figli esso deve comprendere, sin dalla tenera età, una sincera dimensione di contenuti maturi e non esprimere l’ebraismo semplicemente ad un livello infantile. Quando la cultura ebraica rimane essenzialmente passiva, non frequentemente vissuta, o un’esperienza vissuta da spettatore, o un semplice processo di conoscenza, finisce col divenire irrilevante, perfino banale, quando viene paragonata alla cultura dominante in cui viviamo. Il problema nasce, secondo me, dal fatto che la nostra concezione dell’educazione ebraica rappresenta, troppo spesso un complemento relegato nei ritagli di tempo e di energie. È un approccio di natura letteraria, quasi romanzesca con la propria identità che genera una visione della vita ebraica quasi fosse una realtà virtuale, una gloria del passato. Dobbiamo iniziare a promuovere e sviluppare una concezione dell’identità ebraica come identità attuale e autonoma rispetto a quella che ci viene presentata dalla cultura dominante. Si tratta in questo caso di una concezione qualitativa, poiché vuole sostituire a quello che la pressione sociale esercitata dalla realtà circostante propone, o talvolta impone, una diversa visione della vita, considerata meglio confacente alle esigenze della vita ebraica.

Nelle tue lezioni, sempre molto partecipate, uno dei temi che mi sembra ricorrere è quello del rapporto tra gli ebrei della diaspora e Eretz Israel. Come vivi personalmente questo legame verso Israele, cui tutti dovremmo fare riferimento, con l’essere un ebreo della diaspora?

Lo Stato di Israele è ormai sempre di più il centro della vita e della cultura ebraica. Gli ebrei italiani oggi sanno poco e male di quello che avviene in Israele. I messaggi che ci arrivano quotidianamente tramite i media, su Israele suscitano sempre un certo interesse che, tuttavia, si esaurisce rapidamente. Si deve cercare di rendere più positivo e attivo l’atteggiamento di fronte a questi fenomeni poiché altrimenti si sfocia in puro e semplice vittimismo. Israele è spesso vissuto da noi ebrei della Diaspora in modo poco profondo, emotivo, infantile. Ma Israele non è un parco giochi per gli ebrei, non è solo un luogo di vacanza o un parcheggio per chi sta male a casa sua. E non è neppure un luogo che deve destare solo angoscia, paura e preoccupazione a causa dei conflitti. Dobbiamo allargare, nutrire gli orizzonti mentali con cui ci rapportiamo a Israele. Uscire dalla retorica della patria ancestrale per capire che Israele è un luogo di cui cogliere la fertilità profonda: scientifica, spirituale, letteraria, sociologica. Non trascurare ad esempio l’ebraico e generare nuovi stati d’animo, perché la lingua resta il vero ponte tra la sacralità e il quotidiano, tra passato e presente, tra il profano e lo spirituale. una programmazione culturale capace di unire e non dividere, laddove l’obiettivo è quello di creare un network tra le comunità per attivare un dibattito interno che trascenda i soliti slogan.  È necessario studiare la storia del sionismo e la storia dello Stato di Israele, la cui conoscenza è assai meno scontata di quanto si creda. La nascita di Israele ha radicalmente cambiato la coscienza e la percezione che gli ebrei hanno avuto di sé e della relazione con il resto del mondo. Lo Stato ebraico è stato il prodotto di un movimento di pensiero ebraico, minoritario e spesso contrastato, che costituisce ancora una grande sfida intellettuale, sociale e religiosa per l’intero ebraismo. Oggi gli unici protagonisti della discussione interna e forse i soli vettori dell’identità ebraica sembrano essere, ahimè, tematiche come la celebrazione della Shoah e una certa ostentazione retorica dello Stato di Israele. Troppi di noi hanno costruito dietro a questi temi una identità ebraica povera, senza preoccuparsi di capire e di studiare.

Quella che stiamo vivendo da oltre un anno è un’esperienza che nessuno avrebbe creduto di fare. La sensazione è che abbiamo davanti una “terra incognita”, in cui siamo già entrati, ma di cui non conosciamo gli effetti: a tuo parere, che futuro ci aspetta?

È un periodo di isolamento e di grande depressione in cui siamo spinti a riflettere, tra le tante cose, sul senso dell’esistenza e della nostra precarietà. Soprattutto lo scorso anno con le Sinagoghe chiuse, è stata una terribile prova, per un ebreo che dovrebbe essere sempre alla ricerca del decimo uomo per raggiungere il minian, non poter espletare quelle funzioni pubbliche fondamentali. La Torah prescrive che colui che fa maldicenza deve essere isolato dalla collettività perché solo attraverso l’emarginazione può comprendere il valore di una convivenza sociale costruttiva basata su una comunicazione sana. Da sempre la tradizione ebraica insegna che anche nei momenti più drammatici della vita dovremmo cogliere le opportunità sforzandoci di tirar fuori insegnamenti positivi anche dalle brutte esperienze. Ci sono valori come la tefillah, la preghiera, la teshuvà, la profonda introspezione, la tzedakà, la giustizia sociale e la solidarietà, che costituiscono il più forte antidoto contro la perdita di quel senso di responsabilità che ci rende umani. In questi ultimi mesi depressione, solitudine e mal di vivere sono diventate le parole chiave del nostro esistere. Il compito di ogni ebreo è allora quello di mostrare la massima sensibilità verso il nostro prossimo. E con una riunione zoom come neppure con una telefonata non si supplisce alla carenza di affetto e di attenzione. Sono sicuro che anche stavolta usciremo dal tunnel, provati ma rafforzati.

Il Covid ha colpito duramente anche le nostre comunità. La pandemia ha portato via tuo padre, rav Vittorio Chaim Della Rocca, z’l’, e poco dopo hai perso anche tua madre Rossana, z’l’, entrambi molto amati dagli ebrei romani. Un rabbino che aiuto può dare alla sua comunità per permetterle di dare un significato a questi tempi di incertezza, timore e, purtroppo, di lutti?

Un rabbino deve essere dotato di una grande Aavàt Israel, l’amore per la sua gente, oltre che di Aavàt Ha Beriot, l’amore per le creature.  I Maestri nel Talmud (Ketubòt 111b) ci offrono una immagine straordinaria di un tratto che dovrà avere il Messia: “Denti bianchi da latte – Ha detto Rabbì Jeudà: È migliore colui che rende bianchi i propri denti al proprio compagno rispetto a colui che gli dà da bere del latte’.” Mostrare il bianco dei denti è un’espressione che indica il sorriso. Sorridere al proprio compagno è superiore a dargli qualche cosa di materiale. Il conforto, l’amicizia e la disponibilità che sono racchiusi in un sorriso, sono superiori a qualsiasi cosa materiale che si possa dare al prossimo. La Mishnah, nel trattato di Avòt (I,15) riporta a nome di Shammai: ‘Ricevi ogni uomo con un’espressione cordiale’. Il Rav Dessler (Mictav MeEliau 4, 246) si chiede come mai questo insegnamento venga espresso da Shammai piuttosto che da Hillel. È noto che Shammai è più legato alla misura del rigore rispetto a Hillel che è più legato alla misericordia. Spiega il Rav Dessler che si deve essere gioviali con ogni persona perché è un suo diritto, perché gli spetta in quanto essere umano. Il compito del leader è quello di condurre il popolo sulla strada della Torah, stando in mezzo alla sua gente guidandola col sorriso, soprattutto nei momenti più critici e drammatici. Compito principale del rabbino resta quello di applicare la Torah con coscienza e intelligenza, anche se ciò non deve significare necessariamente morbidezza e soprattutto amplificazione di ciò che la gente vuol sentirsi dire. La comunità, dal canto suo dovrebbe preoccuparsi non di fabbricare il consenso ma di favorire e promuovere spazi di studio e di confronto per poter affrontare, con cognizione di causa e con maggiore consapevolezza, non solo dibattiti e discussioni, ma anche e soprattutto proposte e percorsi di soluzione. Come hanno insegnato i nostri Maestri, nello studio si può affrontare quell’impegno comune che consente di riconoscerci all’interno della Tradizione ebraica nel senso più pieno e più inclusivo del termine.

I maestri ci insegnano che non è bene accomiatarsi con parole tristi. Ecco allora la mia ultima domanda: quella dei Della Rocca è ormai una felice tradizione arrivata alla terza generazione, grazie a tuo figlio Eitan, da pochi mesi diventato maskil. Cosa prova un padre per il cammino intrapreso dal figlio?

Nella Parashà di Toledòt, nel mezzo delle vicende relative a Giacobbe ed Esaù, la Torah ci racconta dello sforzo che ha fatto Isacco per riaprire i pozzi già scavati da suo padre, che i Filistei avevano ostruito, e a nominarli fedelmente secondo l’indicazione di Abramo (Bereshìt; 26, 15-18). La benedizione divina si mostra proprio attraverso la volontà di Isacco di non lasciare i pozzi asciutti.  È noto che il pozzo, come ogni sorgente di acqua, rappresenta la Torah. In questa ottica Isacco – il primo ebreo sopravvissuto a uno sventato sacrificio – compie lo sforzo di andare a cercare l’acqua viva sotto la superficie, una speranza, un impegno nell’ottica di ottimismo. Ma anche la responsabilità di ritrovare una anteriorità, un lavoro che Abramo ha fatto per Isacco e che Isacco deve fare per Giacobbe. Scavo non solo per me, ma per insegnare, per condividere, senza competizioni economiche ed intellettuali.

Se vengo contestato rifaccio il tentativo, la necessità di ricominciare ogni volta di nuovo anche se la polvere vanifica tutto.

Questa è   stata la grande operazione che i miei Genitori zz.l hanno fatto con costanza e competenza in tutta la loro non facile vita. Rimettendosi a scavare quei pozzi di Torah che i loro predecessori avevano aperto e che i Filistei del nostro tempo hanno tentato di polverizzare e otturare per sempre.  Rifacendo lo stesso lavoro, ripensando, cercando dentro loro stessi la capacità del chiddùsh, dellinnovazione. Non c’ è studio senza novità e rinnovamento. Studiare la Torà vuol dire essere in grado, nella ripetizione di dire novità. Il percorso rabbinico di mio Padre rav Chajim zz.l è iniziato nel 1946, nel giorno del suo bar miztvà con la Parashà di “Toledòt”, che noi traduciamo generalmente con “genealogie, generazioni”, ma che potremmo tradurre anche come “storie”, come se ogni progetto si costruisse nelle “Toledòt”, attraverso le generazioni.  Eitan, come altri giovani impegnati nello studio e nell’insegnamento della Torah, rinnovano questa costruzione, sviluppando gli insegnamenti dei loro Nonni e Maestri zz.l affinché come i nani sulle spalle dei giganti possano vedere ancora più lontano dei loro predecessori.

* intervista realizzata prima del 13 maggio scorso

2 risposte

  1. Sto leggendo le interviste con grande interesse. Ottima iniziativa per tastare il polso di una situazione non facile grazie alle risposte di rabbini che operano in realtà diverse. In particolare ho trovato illuminanti le risposte di Rav Roberto Della Rocca. Grazie e complimenti

  2. Il rav Roberto Della Rocca non è solo dotato di grande cultura e capacità comunicativa ma anche di sensibili antenne che captano le voci diverse dell’ ebraismo italiano … e di questa “ confusione” egli non si disinteressa ma la pone in rilievo per proporre la sua battaglia educativa ….Tra le molteplici suggestioni, mi colpisce che questa “confusione” si nutre di forze profonde se occorre ammettere come scrive il rav che il sistema di vita religiosa vissuto per generazioni nei secoli passati seppure tuttora adottato da molti giovani con entusiasmo risulta ad altri di difficile approccio e soprattutto di difficile mantenimento nel tempo …
    Una soluzione è certamente l’invito del rav a conoscere la lingua ebraica e a conoscere la cultura religiosa ebraica

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