Cammino tra memoria e storia: questo è quello che ho imparato

In occasione dell’uscita del suo ultimo film, Marina Piperno, produttrice, racconta a Riflessi cosa sta alla base del suo lungo percorso professionale

Il 28 gennaio sarà presentato a Torino il tuo ultimo film, “Le valigie della storia”. Si tratta di un’opera che contiene elementi biografici fin dalle prime immagini, ma che si intreccia costantemente con la storia del nostro paese. Come è nata l’idea di realizzarla?

Marina Piperno e Luigi Faccini

L’idea di questo film autobiografico nasce da una domanda che mi rivolgevo da molto tempo, ossia come fare a trasmettere alcuni miei ricordi, che considero importanti, ad altri, e interessarli a condividerli e a capirli; al tempo stesso, ero spinta anche dal bisogno di unire i ricordi personali agli avvenimenti storici che abbiamo attraversato in quel tempo.

Di recente anche Roman Polanski (La strada dei ricordi, 2021) ha sentito l’esigenza di realizzare un’opera interamente autobiografica. Cosa spinge un’artista a rivelarsi al pubblico in modo così intimo?

Il mondo della letteratura è pieno di libri di memorie, e anche il cinema non manca di film di questa tipologia. Recentemente, come ricordi, Polanski ha fatto un film dal titolo “La strada dei ricordi”: un viaggio a due nei luoghi e nelle sofferenze patite dai protagonisti durante il secolo breve, in seguito all’invasione della Polonia e a quella di poco successiva operata dai sovietici. Allo stesso modo è iniziato il percorso del mio film: un mio racconto strettamente intrecciato alla storia che lo ha generato; un racconto da condividere con quelli che hanno vissuto analoghi momenti, ma specialmente rivolto a tutti quelli che non ne hanno avuto di simili o che non li conoscono. Questo è il motivo che mi ha spinto a superare quello che tu chiami intimità. Questo film è stato prodotto per dialogare con tutti. Ebrei o non Ebrei

Nel tuo film particolarmente intensi sono gli attimi in cui riprendono vita le immagini restaurate di vecchie pellicole familiari credute perdute, in cui tu giochi bambina. Che emozioni hai provato nel rivedere quel mondo degli affetti, distrutto dalla persecuzione fascista?

La famiglia Piperno Di Segni. Marina è la bambina più piccola

Viviamo in un’epoca in cui le immagini sono padrone della nostra vita. Io ne ho prodotte molte per più di 60 anni. Una fortunata coincidenza, ha fatto scoprire a me e a mio marito Luigi Faccini, una scatola arrugginita che, aperta, ha rivelato circa 30 bobine pathé baby, a 9 mm e mezzo, cioè un formato in pellicola che si usò dagli anni ’30 agli anni ’50 del Novecento. In breve tempo abbiamo rintracciato una struttura veneziana capace di convertirle in formati utilizzabili. Una volta realizzato il restauro, le bobine ci hanno rivelato i loro contenuti. Abbiamo così scoperto inedite sequenze girate da mio padre tra il 1931 e il 1946, inaspettate e meravigliose. Ho così capito che la risposta alla mia domanda sulla memoria, su come fare perché non rimanesse solo un ricordo personale, ma anche Storia, era lì davanti ai miei occhi. A quel punto produrre “Le valigie della storia” è diventato necessario. Mi chiedi che emozioni ho provato nella scoperta delle immagini ritrovate. Sono state moltissime e diverse. Mi ha molto emozionato ritrovare, volti, sorrisi, abbracci, momenti di gioia che ho sempre portato con me e che adesso mi sono venuti incontro. Di alcuni mi ricordavo bene, in alcuni frammenti sono tornata quella bambina che aiutava il suo fratellino ad arrampicarsi vicino a lei, su una barca a vela che navigava pacificamente nelle acque di Anzio; altre immagini hanno fatto emergere ricordi e pensieri di quei tempi, quando la paura veniva nascosta a noi bambini. Mi sono messa di fronte alla macchina da presa per condividere con chi vorrà quello che è stato. Il mio più grande desiderio è di intercettare non solo giovani di oggi ma anche tutti coloro che non hanno avuto esperienza di quei tempi. Spero di riuscirci.

Il libro autobiografico che hai scritto insieme a Luigi Faccini, tuo marito, si intitola “Eppure qualcosa ho visto sotto il sole”. Nel tuo lungo cammino di artista, ebrea, donna, cosa hai visto di nuovo sotto il sole?

Ho visto tante cose che mi hanno fatto diventare quella che sono. Sono sempre stata una produttrice indipendente che ha scelto di non produrre solo film di intrattenimento, ma di affrontare con il cinema gli argomenti di tipo storico, antropologico, politico, sociale, storie che hanno raccontato l’emarginazione, le periferie romane, come a Tor Bella Monaca, o la vita di grandi poeti, come Dino Campana, e ancora la Resistenza, le lotte dei guerriglieri contro il dominio portoghese, il lavoro delle donne che hanno fatto lavori usuranti, e molti altri argomenti che appartengono il mondo che viviamo. Da quando ho iniziato non ho mai smesso. Quello che ho visto sotto il sole è tutto nel libro, a disposizione di chi vorrà leggerlo.

Logo delle numerosi manifestazioni organizzate per l’anniversario del rastrellamento degli ebrei di Roma.

Oltre a questo film, ricordiamo anche che, in occasione degli 80 anni dalla data della razzia degli ebrei di Roma, è ancora aperta ai Musei Capitolini (fino al 18 febbraio 2024) una mostra, curata da Yael Calò e Lia Toaff, che raccoglie documenti, giornali, disegni, fotografie ma soprattutto oggetti di vita quotidiana di persone – donne, uomini, bambini – arrestate quel giorno e mai più tornate. La narrazione è affidata la presentazione di numerosi documenti originali, imprestati da diverse istituzioni e da privati, nonché dalla visione di spezzoni di video e la proiezione integrale del tuo cortometraggio “16 ottobre 1943”, girato nel 1960. come è nato il film?

Il breve film, che realizzammo quell’anno, fu il primo sull’argomento. E’ stato tratto dal racconto di Giacomo Debenedetti “16 Ottobre 1943”. Dura solo 11 minuti ma sono molto intensi in quanto fu girato non con attori ma con membri della Comunità che si sono prestati ad interpretare silenziosamente gli eventi di cui molti erano stati anche testimoni. E fu grazie all’interessamento di rav Toaff e di mio padre, Simone Piperno, che riuscimmo a realizzarlo nei luoghi stessi in cui avvenne la razzia: la raccolta dell’oro presso gli uffici della Comunità, la sveglia all’alba negli interni di quelle stesse case, la pioggia sui sampietrini … tutto era molto realistico. Credo che sia questo uno dei motivi che rendono il film, ancora oggi, molto potente. Al girato, aggiungemmo immagini di repertorio mentre la voce narrante di Arnoldo Foà leggeva le parole scritte da Debenedetti ad appena un anno dagli avvenimenti, tra il settembre e il novembre del 1944.Copertina della prima edizione del racconto del saggio-racconto di Giacomo Debenedetti Il regista era Ansano Giannarelli, Domenico (Mino) Argentieri lo sceneggiatore, la musica era di Sergio Liberovici e la fotografia di un esordiante Marcello Gatti che, per questo film, ebbe il suo primo Nastro d’argento alla fotografia, assegnato dal Sindacato giornalisti cinematografici.

Che accoglienza ebbe?

Il film piacque molto, ebbe il Premio di Qualità dell’allora Ministero dello Spettacolo ma, all’epoca, la diffusione passava attraverso i festival (Festival dei popoli di Firenze) e nelle sale cinematografiche dove, però, un film breve veniva associato, prima o dopo, ad un lungometraggio. Spesso gli esercenti ne dichiaravano la proiezione e poi la sostituivano con pubblicità di altro. Sono dovuti passare molti anni finché, in Italia, diventasse uno dei film consigliati per le attività legate alla Memoria, specialmente nelle scuole, dove spesso vado anche come Testimone.

Perché hai deciso che il tuo primo film avesse questo tema, in un periodo in cui, in qualche modo, si tendeva o non parlare dello sterminio, teorizzando quasi la rimozione di questo, temendo anche di traumatizzare il pubblico. E’ stato difficile parlarne?

Semplicemente perché quello che era successo il 16 ottobre faceva parte della mia esperienza, ero piccola ma la fuga (poco prima di quella data) e tutto quello che è successo dopo erano, e sono, ben presenti nella mia memoria. Durante tutta la mia vita mi sono sempre occupata di cinema di ricerca, di memoria, contestualizzando le narrazioni all’interno della Storia. Anche negli anni successivi ho prodotto (talvolta anche interpretando) film e docu-film in cui l’esperienza ebraica è centrale. Ad esempio, “Donna d’ombra” (1989) con regia e sceneggiatura di Luigi Faccini, oppure “Il Pane della memoria” (2008) su Pitigliano e la sua comunità ebraica. E ancora, “Diaspora” di largo respiro storico e familiare (2017) o la storia – recuperata sempre da L. Faccini – di “Rudolf Jacobs, l’uomo che nacque morendo”, l’ufficiale tedesco che prima diserta e poi morirà partigiano (2011).

 

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