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Nella vita l’importante è non arrendersi

Riccardo Calimani, ebreo veneziano, è ingegnere, storico, scrittore. A Riflessi racconta un pò della sua vita, e come vede l’ebraismo italiano, partendo da un punto fermo: “l’ebraismo è dialogo, ascolto, libertà”

Riccardo, cominciamo dal tuo percorso professionale, che mi pare davvero particolare. Tu sei ingegnere, storico, letterato, sei stato anche alto dirigente Rai: che cosa unisce le tappe di un percorso così vario?

l’ultimo libro di Calimani (Gli ebrei e la Germania, Bollati Boringhieri, 2021)

Il filo conduttore della mia vita è sempre stato uno: cercare di capire il mondo. Per riuscirci, credo che occorra interessarsi di più ambiti, perché la realtà è sempre molto complessa. Io mi sono laureato in ingegneria, ma poi non mi sono fermato, e così ho preso una laurea anche in filosofia della scienza. La scrittura è stata però l’altra mia passione, assieme alla storia. Ho scritto il mio primo romanzo 15 anni, rimasto inedito, e a 25 ho pubblicato il primo, “Una di maggio”. Oggi sono arrivato a circa 25 titoli. Ho dunque sempre avuto una formazione scientifica di base, ma credo che non ci siano contraddizioni con tutto il resto.

E della Rai che mi dici?

Ci ho lavorato per circa 30 anni. A quei tempi era una grande azienda, che pur tra molte contraddizioni ha contribuito a modernizzare il paese. Oggi mi pare che la Rai si muova con difficoltà, ma resta comunque una grande azienda.

Dunque un’esperienza positiva?

Pur con qualche amarezza. A un certo punto, per fare spazio a un altro, mi mandarono a Roma, ma non andai, e per 3 anni rimasi così nell’incertezza. Quando riuscii a parlarne con il Direttore generale d’allora, quello, capita la situazione, mi confermo dirigente a Venezia e dopo qualche mese mi nominò della sede Rai del Veneto, dove rimasi 5 anni, entrando anche nel consiglio d’amministrazione della Biennale. Poi, che vuoi farci, io sono sempre stato un tipo schietto, e così alla fine è successo che fui sollevato dall’incarico e decisi che in Rai avevo dato abbastanza.

Nella tua vita però anche i successi sono stati molti.

Certo. Vedi, nella vita ci sono vittorie e sconfitte, l’importante è non arrendersi. Una vittoria, per esempio, è stata quella di pubblicare tanti titoli con un grande editore come Mondadori. Scrivere è una cosa splendida. Mi dispiace, piuttosto, che, avendo pubblicato 3 volumi sugli ebrei d’Italia, il pubblico non ebraico sia stato un lettore più attento di quello ebraico. Ecco un altro insegnamento che ne ho tratto: non c’è nulla che dia fastidio più del successo altrui; d’altra parte, nessuno è profeta in patria.

Tu sei anche una persona fortemente radicata nella propria città. Che ebreo è quello veneziano?

un angolo dell’ex ghetto ebraico a Venezia

Venezia è un unicum al mondo, pensa solo al fatto che a lungo è stata il ponte tra Occidente e Oriente. Qui c’è stato il primo ghetto al mondo, e anche questa è un’ulteriore singolarità. Era inoltre una Repubblica tra tante monarchie. Qui gli ebrei sono sempre stati, se non liberi, mai maltrattati. Quanto a me, la mia famiglia è arrivata nel 500, e io sono il primo Calimani che, da allora, sia nato fuori dal ghetto (anche se a poca distanza). L’ebreo veneziano è perciò internazionale, aperto al mondo. A Roma gli ebrei erano conculcati ogni giorno con prediche coatte, qui invece erano apprezzati per il ruolo economico loro affidato, sia pure tra difficoltà. Qui, nella città lagunare, non abbiamo mai davvero sentito la minaccia della conversione.

Hai scritto una storia dell’ebraismo italiano, per cui sei “persona informata sui fatti”. Come vedi l’ebraismo italiano oggi?

I numeri sono abbastanza poveri. Gli ebrei italiani sono sempre meno, la metà è a Roma. Le comunità sono piccole, bisognerebbe avere forti legami e solidarietà tra noi, ma la realtà è che tale solidarietà manca. Il mondo ebraico italiano è piccolissimo, e in grande difficoltà. È però vero che siamo sovraesposti, sovradimensionati rispetto alla realtà. D’altra parte, quando ci sono mille piccole nere e una bianca, si vedono palline nere e bianche.

Che prospettive ci sono dunque?

Ne vedo poche al momento. E poi siamo influenzati e dipendenti in qualche modo del modello israeliano.

Che intendi?

I rabbini, purtroppo – non tutti naturalmente –, hanno pensato più a coltivare l’autorità, che l’autorevolezza. Io credo invece che debbano essere figure autorevoli, con grande personalità; che insomma siano in grado di trascinare e coinvolgere gli ebrei. Di questo ci sarebbe bisogno, ma, a parte alcune eccezioni, oggi non è così. Ricordo che una volta, in un intervento alla radio, in cui entrambi eravamo intervistati, rav Toaff disse: So benissimo che il Talmud insegna agli ebrei che c’è sempre una maggioranza e una minoranza, e che entrambe vanno rispettate.

E per quel che riguarda la dirigenza comunitaria? Che qualità dovrebbe possedere quella chiamata a guidare nel prossimo futuro l’ebraismo italiano?

Deve ascoltare, capire e interpretare il mondo. Certo non è per niente semplice. La difficoltà sta nel fatto che il mondo moderno corre velocissimo, e questo rende tutto difficile, me ne rendo conto. D’altra parte, la disfatta di Kabul mostra che ci attendono tempi ancora più difficili. Si apre ora una pagina drammatica, che produrrà onde d’urto gravi, perché gli americani non sono più una potenza in grado di gestire tutte le dinamiche internazionali. Di fronte a tutto questo, il ruolo degli ebrei, in generale, è continuare a ragionare, intrepretare, comprendere.

E quali dovrebbero essere per te le priorità da mettere in agenda?

Essere ebrei è molto importante. Quel che dovremo spiegare ai nostri figli è che il mondo moderno è complicato, e che la nostra capacità critica è molto preziosa per orientarci. Abbiamo una sensibilità tutta particolare, che deve continuare a essere coltivata. Credo anche che nel nostro mondo fatalmente ci siano residui idolatrici. Guarda il caso del vitello d’oro al tempo di Mosè, costruito in un momento di debolezza. Io credo che nel mondo moderno bisogna combattere ogni forma, politica e religiosa, di idolatria. È difficile, ma è il nostro compito. Del resto, l’ebraismo è la religione della libertà.

Sul futuro dell’ebraismo italiano, leggi anche Sergio Della Pergola

 

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