Ascolto e dialogo per resistere al male
Angelica Calò Livne, dal 7 ottobre, è impegnata a spiegare il trauma di Israele e a tenere aperta, tra paura e dolore, il percorso del dialogo. Perché la guerra, quando finirà, avrà bisogno ancora di persone che sapranno parlarsi
Angelica, come si vive da quattro mesi con la guerra in casa?
La prima sensazione che provo e quella di madre. Vedi, ho cominciato a sentirmi davvero israeliana quando Gal, il mio primo figlio, è partito per la Tzavà (il servizio militare, n.d.a.). Io infatti mi considero ancora un’ebrea romana, e sono legata profondamente alla mia città, ma quando Gal si è arruolato ho avuto davvero la sensazione che la mia vita fosse cambiata. È stata una sensazione che ho provato di nuovo quando, la mattina del 7 ottobre, uno dopo l’altro tre dei miei quattro figli mi hanno chiamato per informarmi che, come riservisti, stavano partendo per Gaza. È stato allora che il mondo mi è caduto addosso. Per fortuna ho sempre affianco a me Yehuda, che è una roccia, mi dà una sicurezza enorme e mi tranquillizza molto.
Tuttavia neanche tu sei rimasta con le mani in mano. Sei infatti appena tornata da un viaggio in Italia per testimoniare il trauma di quello che Israele ha subito il 7 ottobre.
Dal primo momento che siamo entrati in guerra mi sono sentita subito una grande responsabilità: quella di raccontare al mondo cosa stava succedendo. Sarà forse per il mio nome. Edna è quello che ho scelto quando mi sono trasferita in Israele, ma i mei genitori mi hanno chiamata Angelica. L’origine del nome indica un messaggero, e io mi sento a volte davvero un messaggero.
Perché?
Mi considero fortunata perché da molto tempo conosco la ragione perché sono venuta al mondo, una consapevolezza che non tutti hanno. Io sento invece di aver ricevuto due doni: quello di saper comunicare e di saper ascoltare. Credo dunque che il mio compito sia questo: dialogare e ascoltare. Anche se sono a volte stanchissima, e mi sembra di non avere quasi le forze per farlo, poi mi dico che devo comunque rimanere in piedi per continuare a raccontare quello che provo. Per dare un po’ di luce e informare le persone di quel che accade qui. In questi giorni c’è davvero bisogno di momenti di luce.
A cosa ti riferisci?
Io credo che noi dobbiamo ascoltare sempre le persone che abbiamo davanti. A me succede proprio questo: ascoltando la persona di fronte a me, ascoltando quello che sente dentro di sé, capisco le sue ragioni e al tempo stesso riesco a spiegare le mie ragioni.
Come si organizza una famiglia obbligata a evacuare la propria casa?
Le famiglie con i bambini piccoli sono quelle che stanno peggio. Ora il nostro kibbutz è stato quasi per intero evacuato in un villaggio turistico sul lago di Tiberiade. Ogni famiglia ha a propria disposizione una stanza da letto, un piccolo salotto, un bagno e un cucinino. Puoi immaginare le difficoltà di vivere avendo tre o quattro bambini. Anche io, che ho deciso di rimanere qui insieme a Yehuda, responsabile della sicurezza del kibbutz, sono stata obbligata a spostarmi, perché la nostra casa è troppo esposta verso il fronte nord attaccato da Hezbollah. Mi sono così trasferita in un’altra casa di Sasa, più nelle retrovie. Ovviamente questa cambiamento ti condiziona sempre, e così può accadere che mentre cammini pensi che magari sta per accaderti qualcosa.
Come si resiste?
Cerchiamo di farci forza fra di noi. Come Noga, la ragazza con tre bambini piccoli responsabile dei lavori del kibbutz, una donna molto forte e decisa, e che tuttavia è anche capace di confessarti all’improvviso la solitudine che prova nello stare lontano dalla sua famiglia. E noi siamo anche i più fortunati, se penso che molti altri kibbutzim sono stati distrutti per intero.
Da quanto tempo vivi in Israele?
Dal 1975, quando sono arrivata che avevo vent’anni.
E avevi già allora la consapevolezza che ti saresti trasferita?
Certo! Fin da ragazzina io ho sempre frequentato i campeggi dell’Hashomer Hatzair (organizzazione giovanile sionista e non religiosa, n.d.a.), e dunque sono cresciuta nella prospettiva e nella convinzione di vivere in Israele secondo un modello socialista.
Da dove nasce questa aspirazione?
Non lo so di preciso. A Roma ho cominciato a frequentare l’Hashomer già a 12 anni. A quel tempo per gli studenti più meritevoli c’era la possibilità di ricevere una borsa di studio per continuare gli studi presso il Collegio rabbinico, se maschi, o per il Seminario Almagià, per le ragazze che sarebbero volute diventare maestre. Io avevo studiato l’ebraico con il maestro Pavoncello e fui segnalata, anche se per partecipare al corso occorreva passare per un colloquio con il rabbino capo, rav Toaff. Qualcuno mi ammonì di non dire al rav che frequentavo l’Hashomer, ma io non sono mai stata in grado di mentire! Appena mi trovai davanti a lui gli dissi non solo che ero una ragazza dell’Hashomer, ma che speravo di poterne diventare anche una delle guide. E sai cosa mi rispose il rav?
Cosa?
Mi guardò con il suo sorriso e poi mi disse: “e tu pensavi che io non lo sapessi?”
Come fu l’esperienza al Seminario Almagià?
Molto bella. Avevamo alcune materie in comune con i ragazzi del Collegio Rabbinico e io ero l’unica femmina. Molti dei miei colleghi studenti poi sono diventati rabbini, che oggi officiano in Italia e all’estero. Ti confesso che la mia piccola soddisfazione era rispondere alle domande dei maestri prima di loro: molte volte il mio intuito mi suggeriva in anticipo la risposta giusta.
La tua famiglia ti incoraggiò nella scelta di trasferirti in Israele?
No! Quando dissi loro della mia intenzione di trasferirmi ebbi con mio padre una baruffa, perché lui non poteva capacitarsi come sua figlia, nata in una famiglia benestante, decidesse di rinunciare a un futuro agiato per vivere in un kibbutz. La mia famiglia infatti era una classica famiglia ebraica borghese. A 15 anni, ad esempio, mio padre cercò di impedirmi di continuare a frequentare l’Hashomer, perché gli avevano riferito che, durante i campeggi in Israele, ci fosse troppa promiscuità. Alla fine andai, ma fui obbligata a dormire vicino agli shlichim (i responsabili del campeggio, n.d.a.), e a portarmi da casa la carne casher. Puoi immaginare che nessuno avrebbe scommesso che, arrivata in un kibbutz, ci sarei rimasta tutta la vita.
Resta da capire cosa ti abbia spinto a questa scelta.
Mi affascinava da sempre l’idea di poter condividere insieme a un gruppo di ragazzi e di amici una vita in comune, e di farlo in un luogo scelto per stare insieme, ciascuno secondo le proprie possibilità e secondo le proprie necessità, mettendo in comune tutto ciò che si aveva e che si sapeva fare. Si tratta di una esigenza che ho sempre avuto. Pensa che mia madre mi raccontava come da piccola, ricevuto un secondo paio di scarpe, mi rifiutai di indossarle e tenni il broncio fino a quando la convinsi a donarle a una mia compagna di classe più in difficoltà.
Che persone erano i tuoi genitori?
Mio babbo, Angelo, era imprenditore e fu presidente del Keren HaYesod (associazione benefica ebraica, n.d.a.); mia madre, Fiorella, era molto impegnata nell’Adei Wizo (associazione culturale femminile ebraica, n.d.a.). Sono sempre state persone molto attive e piene di energia. Avevano un grande amore per Israele e un ottimismo sconcertante che hanno trasmesso ai loro figli. Mio padre era di Trastevere, lo ricordo che nel quartiere era amico di tutti, e in questo mi è sempre stato d’esempio. Per mio padre, nonostante si fosse fatta una posizione, gli altri erano esattamente uguali a lui, aveva la capacità di dialogare con tutti: operai, camerieri, magazzinieri; mio padre si considerava esattamente uguale a loro.
Vivi in un kibbutz da oltre quarant’anni; com’è cambiata la vita qui in tutto questo tempo?
Per la verità, fino al 7 ottobre vivere qui mi dava l’impressione di essere sempre in vacanza! Infatti questo è un posto immerso nel verde, abitato da persone legate da un solido legame di amicizia e solidarietà. Intorno a noi ci sono campi coltivati, frutteti, che abbiamo realizzato un passo alla volta. Quando arrivai il kibbutz era ancora in costruzione, nato per volontà di ebrei americani. Il suo punto di forza, secondo me, è non solo la creatività che lo ha sempre caratterizzato, incentivando i talenti di chi vi abita, ma anche una efficace organizzazione di lavoro. Dopo il 7 ottobre, ad esempio, in poco tempo siamo riusciti a organizzarci per continuare a mandare i bambini a scuola, e a salvare il raccolto delle nostre mele; siamo riusciti anche a stampare il nostro giornale settimanale.
Come sono stati gli inizi per te nel kibbutz?
Al principio ho dovuto affrontare alcune difficoltà. Io sono una persona idealista, e qui all’inizio la gente non era abituata a vedere questo entusiasmo e questa fiducia verso il prossimo. Ho capito la fortuna di essere nata in un paese che non aveva più conosciuto la guerra. A contatto con gli altri abitanti del kibbutz ho capito infatti quanto possa essere difficile crescere in zone di guerra. Quando ho preso il mio master in arte ed educazione, uno dei degli esercizi che ci fu dato fu quello di descrivere un abbraccio. Naturalmente io mi sono offerta per prima e a quel punto ho scoperto che le altre partecipanti al corso in molti casi non avevano mai ricevuto un abbraccio dal padre e se ne vergognavano.
Come è nato il desiderio di fare teatro?
L’ho sempre avuto. Insegno teatro dal 1979, appena finiti gli studi. Fu allora che nel kibbutz mi reclutarono come educatrice. Insegno teatro creativo, i ragazzi venivano da me correndo e pretendendo di fare lezione. I bambini infatti attraverso il teatro si sfogano, ballano e cantano. Da questa esperienza è nata successivamente l’esigenza di fare un teatro comunitario per adulti. E così, vent’anni fa, è nato Beresheet LaShalom, anche come reazione al periodo angosciante che stavamo vivendo, con la seconda Intifada.
Che periodo era?
Ogni giorno c’erano uno o più attentati contro la popolazione civile. Vivevamo in un clima pesantissimo. Accadde così che in un’estate organizzammo una vacanza in Toscana per 50 ragazzi israeliani, ospiti della comunità ebraica, per tenerli almeno per un po’ lontani dal clima di guerra che si viveva in Israele. È stato al ritorno che ho preso la decisione di insegnare teatro a ragazzi israeliani e palestinesi.
Che reazioni hai avuto?
All’inizio mi dissero che la cosa era impossibile, che i genitori non avrebbero mai permesso di avere contatti con ragazzi palestinesi per la sicurezza dei loro figli. Ma come sempre ho fatto di testa mia, e poco alla volta sono riuscita ad aggregare ragazzi israeliani, palestinesi, drusi e arabi cristiani, che vivono nei dintorni del nostro kibbutz. Da allora il teatro va avanti ogni anno e favorisce lo scambio e la reciproca conoscenza. Nell’ultimo spettacolo che ho scritto, basato sulla storia di Anna Frank, sia Anna che suo padre Otto sono impersonati da ragazzi arabi. È stato anche un modo per far comprendere loro la Shoah e la crudeltà subita dagli ebrei, visto che Nader, il protagonista maschile, all’inizio non aveva compreso che si trattasse di una storia vera. Un altro episodio di riconoscimento reciproco è stato il caso di Or, un ragazzo israeliano che quando seppe che recitavo anche con ragazzi arabi se la prese a morte con me, visto che a casa sua viveva con il dramma di un fratello invalido a causa di un attentato. In seguito Or ha chiesto di far parte della compagnia e al suo interno ha trovato i migliori amici.
Quindi non c’è più diffidenza verso la tua compagnia teatrale?
A volte capita dove meno te lo aspetti. Ad esempio tempo fa mi fu detto che avrei avuto difficoltà a rappresentare i miei lavori teatrali nella comunità ebraica di Roma, proprio a causa della presenza nella compagnia di ragazzi arabi. Ti rendi conto? Il mio teatro viaggia e recita in tutta Italia, ma qualcuno pensava che non sarei dovuta venire nella mia comunità. Alla fine abbiamo fatto lo spettacolo al Portico d’Ottavia ed è stato un evento straordinario. La verità è che questi ragazzi, tutti i ragazzi della compagnia, li considero miei figli.
Dopo tanti anni vissuti in Israele, cosa ti rimane dell’Italia e dell’ebraismo romano?
Penso che questa allegria e questa energia che possiedo venga senz’altro dall’ebraismo “di piazza” romano. Anche se io non abitavo nell’antico ghetto ebraico, mi ritrovavo ogni giorno con i miei genitori all’uscita di scuola in casa dei miei nonni a Trastevere, ed è lì che ho appreso lo spirito e la giovialità degli ebrei romani. Vivere e crescere a Roma significa essere immersi nella bellezza, una sorta di incanto presente in tutta Italia. Tornare in Italia ogni volta significa riempirsi gli occhi di questo splendore, come ci è successo nell’ultimo viaggio a Genova, Perugia, Siena, Firenze, Roma.
In questo viaggio hai spiegato il trauma che sta vivendo oggi Israele. Purtroppo anche in Italia però sono aumentati i casi di antisemitismo. Cosa pensi del pregiudizio antiebraico?
Tornata in Italia è come se fossi stata catapultata nelle storie che i miei genitori mi raccontavano, da piccola. Pensavo fosse una cosa impossibile, ma purtroppo l’odio è un sentimento diffuso in molti, che io non riesco a capire, perché non ho mai provato odio verso nessuno. Come è possibile odiare gratuitamente qualcuno, tanto più senza conoscerlo? So che qualcuno mi considera una nemica perché sono ebrea, ma hanno mai parlato con me, mi conoscono? La cosa peggiore di quel che è successo il 7 ottobre, che ancora oggi mi fa star male, è vedere come esistono persone che non si comportano come esseri umani. La violenza del 7 ottobre non è in alcun modo giustificabile, ha prodotto tantissima sofferenza e rimesso in circolo un odio contro cui io, da educatrice, ho sempre combattuto, e questo mi fa sentire molto male.
E per quanto riguarda Israele? Le proteste prolungate fino al 7 ottobre, e la guerra ora in corso, ci trasmettono le immagini di un paese profondamente lacerato. È così?
I miei figli hanno tutti servito nell’esercito. Quando vedi i ragazzi israeliani fare il servizio militare e salutarsi con quegli abbracci e quel calore così forte capisci da un lato, il fortissimo senso di protezione che abbiamo l’uno verso l’altro, dall’altro anche che siamo sempre in bilico su un burrone, nel quale potremmo precipitare. Israele è composto da tante culture e da tante tradizioni diverse, così è sempre stato, anche se oggi il nostro dolore più grande è vedere le divisioni che attraversiamo. Siamo stati messi uno contro l’altro. Ora io credo che per poter andare avanti ci sia un grande bisogno dell’altro, e questo richiede la necessità di saperci ascoltare. Purtroppo anche io ho subito questa lacerazione, come con un mio caro amico che arrivato in Israele è diventato ebreo religioso, e che a un certo punto ha cominciato a scrivermi lettere orribili, accusando il Meretz, il partito per cui ho sempre parteggiato, di essere troppo vicino agli arabi e non agli interessi di Israele.
Cosa rispondi a chi, anche tra gli ebrei, dice che una pace con gli arabi non sarà mai possibile?
Non abbiamo altre alternative. Io penso in ogni momento che potrebbe accadermi qualcosa, anche ora che ti sto parlando, però al tempo stesso sono sicura che è impossibile cancellarci tutti, come ai tempi della Shoah o dei pogrom. Come non è possibile cancellare l’aspirazione che c’è dall’altra parte. Credo che ora siamo arrivati a un livello bassissimo dell’umanità e che è il momento che i governanti tornino a parlarsi, perché in questo momento siamo tutti ostaggi, a Gaza e qui in Israele. Ostaggi della violenza e dell’odio. Qualcuno deve avere la forza di trovare il modo per arrivare ad un accordo. Purtroppo l’uomo è sempre più incline allo scontro, mentre io sono per mia natura disponibile sempre al compromesso. Mentre i nostri soldati sono a Gaza a combattere Hamas, io continuo a credere nella necessità del compromesso. Dobbiamo, noi e gli altri, rinunciare a qualcosa per andare avanti e vivere.
Come è possibile riuscirci?
Dobbiamo sforzarci di trovare un filo comune. Noi non possiamo fare a meno di avere rapporti con gli arabi, perché sono tutti intorno a noi. Allo stesso modo, gli arabi che vivono tra di noi o ai nostri confini non possono fare a meno di Israele. Dobbiamo superare il pregiudizio.