L’8 settembre 1943 e noi
80 anni fa l’armistizio apriva l’ultima fase della guerra. Dalla Resistenza nasceva la Repubblica, che oggi torna a confrontarsi con quel passato. Ne parliamo con Alberto Cavaglion
Alberto, 80 anni fa l’Italia firmava l’armistizio con le forze Alleate, che metteva fine alla guerra a fianco del nazismo. In che situazione si trovava il paese in quell’8 settembre?
Non l’8 settembre, ma dal 25 luglio l’Italia era entrata in una situazione di totale caos. L’esercito, che fino ad allora aveva combattuto a fianco dei tedeschi, si trovò più di ogni altra parte della nazione, in una situazione assolutamente paradossale per quel repentino rovesciamento delle alleanze. La società intera si trovò nella condizione di non sapere più nulla della propria identità. A buon diritto potevano affermare la sovranità sul territorio nazionale il governo che starà per insediarsi a Brindisi, la Repubblica Sociale di Mussolini che andrà a insediarsi a Salò. Invasori o occupanti si dichiaravano, o erano visti tali, gli Alleati e i Nazisti. Il movimento partigiano cercherà di incunearsi in questo babelico contesto, ma fu all’inizio un movimento minoritario, spesso formato da soldati di un esercito in rotta. In mezzo, la società civile, disorientata, spaventata, indecisa sul da farsi. Severamente giudicata come “zona grigia”, per arbitraria estensione di una categoria storiografica che Primo Levi aveva coniato per altre situazioni, di fatto, quella parte d’Italia impolitica o apolitica era stordita dalla fine di un ventennio di retorica e di cattive illusioni.
L’armistizio non poneva però fine alla sofferenza e alla guerra. L’Italia dovrà attendere la piena Liberazione a lungo, arrivata solo il 25 aprile 1945 a Milano. Cosa accadde in quei quasi 19 mesi?
Quello che accadde fra 8 settembre e 25 aprile rappresenta un caso più unico che raro di quante nobili cose il nostro paese sappia produrre, in caso di necessità, quando è messo con le spalle al muro o, se preferisci, quando subisce dalla storia uno schiaffo tale da far risorgere energie e virtù che si pensano (anche oggi) inadatte al nostro carattere nazionale. Mi sta però molto a cuore dire sempre, soprattutto ai ragazzi, che l’antifascismo post-8 settembre è altra cosa rispetto all’antifascismo post-1922, di cui pochissimo s’è parlato e si parla. Questo antifascismo nasceva da una precoce presa di coscienza politica, l’altro maturava per effetto della lezione delle cose. La differenza non è di poco conto.
In particolare, per quanto riguarda gli ebrei, che periodo fu quello intercorso tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945?
Una imponente bibliografia dal 1988 ci ha descritto quanto gli ebrei italiani ebbero a patire in quel periodo. Rimangono però aperte questioni storiografiche per me importanti, che non posso affrontare qui, ma andrebbero ripensate. Le categorie del Giusto e del Carnefice, per esempio, che solitamente vengono adoperate mi convincono poco, non sono categorie storiografiche, ma etiche. Si dovrebbe più correttamente partire dai dati numerici.
Possiamo accennare a qualche numero?
Di tutti i paesi passati attraverso l’occupazione nazista, dopo la Danimarca (0,12%) e la Finlandia (0,35%), l’Italia è il paese con la più bassa percentuale di ebrei vittime dello sterminio (17,3%). Non lo dico io, ma lo hanno scritto tutti gli storici della Shoah a partire da David Vital. A supporto di questi numeri andrebbero osservati due ulteriori elementi. In Italia la maggioranza degli ebrei viveva nella parte della penisola dove più a lungo è durata l’occupazione nazista e dunque i numeri avrebbero dovuto essere diversi. Nel conteggio degli arresti e nel raggiungimento di queste cifre, andrebbe aggiunto che tra ebrei arrestati e deportati dall’Italia sono compresi gli ebrei «stranieri», per le più diverse ragioni finiti in Italia, «rifugio precario» secondo la felice definizione del compianto Klaus Voigt. Verso di loro vi fu particolare accanimento, già nel 1939-40; dopo il 1943, la persecuzione delle loro vite fu prima del 1943 particolarmente brutale. Indifferenza, menefreghismo, più che volontà di sterminio si vide già nel 1938-1939, spingendoli verso la Francia, al confine occidentale: «Favorire al massimo l’esodo», la cinica espressione che ritroviamo negli ottimi studi su questo tema di Paolo Veziano (e talvolta riascoltiamo nei discorsi dei nostri politici sui migranti odierni). Dopo l’8 settembre, poi, per loro, prima che per gli ebrei del luogo, scattò la deportazione. Lo dimostra il caso del campo di Borgo S. Dalmazzo o la vicenda di Grosseto. Nel caso specifico del Piemonte la percentuale dei deportati è così elevata, rispetto alla media nazionale, in ragione del fatto che sono calcolati i 350 ebrei stranieri provenienti dalla Francia occupata, dove quegli stessi profughi avevano trovato sostegno e aiuto dalle forze italiane.
Come interpretiamo queste cifre?
A spiegare questi numeri, non bastano più le spiegazioni che di solito vengono ricordate: la scarsa consistenza demografica delle comunità italiane, la minore virulenza della polemica antiebraica, il lento e ritardato avvio dell’organizzazione dello sterminio. Sono spiegazioni vaghe, storiograficamente poco fondate. Tanto meno convincente la lettura in chiave etica che alla fine risulta dominante. Non va molto lontano chi mette il Giusto contro il Carnefice. La storiografica dovrebbe sforzarsi di avanzare qualche ipotesi più fondata, a prescindere dalla questione della scelta morale, soggettiva per definizione. Secondo me una possibile spiegazione andrebbe cercata nella storia degli ebrei nell’800 e nella società liberale, nel lungo cammino di integrazione che consentì a un numero così alto di ebrei italiani di stabilire relazioni sociali stabili. A rendere così percentualmente alto il numero di chi trovò salvezza senza emigrare è forse il radicamento e la qualità dei rapporti che gli ebrei avevano saputo intessere nei decenni che seguono l’uscita dai ghetti Non una spiegazione moralistica, come si vede, ma un’analisi di lungo periodo, come sempre si dovrebbe fare quando si analizza un problema complesso. Forse fu proprio il radicamento di questi rapporti personali, e non una presunta bontà, a sfociare al momento opportuno in rete di protezione. Ho cercato di sviluppare questo concetto in un saggio che spero possa essere presto pubblicato e qualche altra considerazione si potrà trovare nella bellissima memoria di un grande storico del fascismo in Italia poco conosciuto, Daniel Carpi, la cui autobiografia, a cura di un giovane e brillante studioso, Giacomo Corazzol, sta per essere pubblicata da Giuntina.
Un certo orientamento storiografico (Galli Della Loggia) parla da tempo di “morte della Patria”, per intendere non solo i danni prodotti dal fascismo, ma anche i limiti della Resistenza a costruire una Repubblica salda e un autentico sentimento nazionale; forse, in questa lettura c’è anche l’idea che lo stesso armistizio sia suonato come una specie di “tradimento” degli impegni presi con l’alleato tedesco (insomma, si confermerebbe lo stereotipo dell’Italia come paese inaffidabile, opportunista). Tu condividi questa lettura?
Se per morte della patria s’intende lo stato di caos, cui prima accennavo, l’espressione morte della Patria mi convince, ma non basta a descrivere quello che di fatto è stato: la morte del fascismo, il suo crollo definitivo dovuto alla catastrofe militare. Per questo trovo tristissimi i tentativi che verranno fatti sempre nel dopoguerra allo scopo di tenere viva o addirittura eterna la parola “fascismo”. L’8 settembre è il giorno che sancisce per sempre la morte del fascismo. C’è anche qui la tendenza a confondere quello che verrà dopo, cioè la RSI, con l’intera storia di un ventennio di fascismo. Tra l’altro la lotta partigiana, vista sul lungo periodo, sconfisse quello che potremmo dire l’epifenomeno del fascismo, ma non riuscì purtroppo a sconfiggerei mali profondi della nostra società che precedono il fascismo e nel Ventennio il fascismo aveva rinvigorito. Questi mali ancora ci affliggono.
L’anniversario dell’8 settembre 1943 ci rimanda innegabilmente alla cronaca di oggi. Questo governo, e in particolare la premier Giorgia Meloni, ha più volte tentato di rileggere e reinterpretare alcuni momenti fondamentali della nostra storia repubblicana. Ecco dunque che l’MSI di Michelini, Rauti e Almirante sarebbe stata una forza politica che ha aiutato a costruire la democrazia invece di essere un partito che si richiamava direttamente alla repubblica sociale di Mussolini; ed ecco anche la condanna della strage di Bologna che resta sì “terroristica”, ma non più (espressamente) “neofascista”. Come interpreti questi tentativi di riscrittura della nostra storia?
Nei giorni scorsi sono stato invitato a Gressoney a una manifestazione di giusta protesta contro la decisione dell’amministrazione comunale di aprire la sala consigliare a un convegno su Julius Evola. Credo stiamo vivendo un periodo di generale euforia da parte di chi dopo il successo elettorale si sente libero di dire ad alta voce o prendere pubbliche decisioni serbate nel segreto dell’anima per lungo periodo. Una destra culturale è sempre esistita in Italia: negli anni Settanta la Nuova Destra andava talvolta a braccetto della Nuova Sinistra quando si parlava per es. di “gramscismo di destra”. Nella dialettica fascismo-antifascismo nulla di nuovo accade sotto il nostro bel sole.
C’è sempre la sensazione del già visto, del già ascoltato. I risultati elettorali ultimi hanno legalizzato ed esteso questa euforia, che talora ha esiti preoccupanti altre volte ha esiti ridicoli, di cui credo la più preoccupata sia la Meloni, atterrata, in politica estera ed economica, su terreni di sano realismo. Di questa disamina interna al suo partito sarà interessante vedere i futuri sviluppi, ma io non sono un uomo politico e in genere sono proprio goffo: ho sempre sbagliato le mie previsioni. Mi interessa di più il nostro comune destino di cittadini, del loro rapporto con il passato. A partire dal 2022 siamo entrati in una fase di lunghe celebrazioni del ventennio, che culminerà nel 2045 (saremo vivi?) con il centenario del 25 aprile. C’è tempo sufficiente, credo, per una ricostruzione di quel ventennio più approfondita di quanto si sia fatto finora, meno “surriscaldata” e dunque indebolita dalle nostri divergenti passioni.