Scrivo del mondo ebraico con le migliori intenzioni
Alessandro Piperno, intellettuale, scrittore, direttore della collana dei “Meridiani”, dialoga con Riflessi su identità, comunità, scritture e letteratura
Alessandro Piperno, i suoi lettori la conoscono come scrittore poliedrico e di successo (vincitore del premio Strega nel 2012 con Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi), letterato raffinato – una delle sue passioni accademiche è Proust e la letteratura francese, che insegna all’università – firma di punta de “La Lettura”. Ai nostri lettori interesserebbe sapere qualcosa in più delle sue origini ebraiche.
Sono figlio di matrimonio misto: madre cattolica, padre ebreo. I miei genitori hanno avuto la lungimiranza e il buonsenso di non imporci (parlo di me e mio fratello) alcuna educazione religiosa. Siamo stati circoncisi laicamente e non siamo stati battezzati. Finché i miei nonni sono stati in vita ho partecipato alle festività di ciascuna delle due confessioni: a onor del vero, senza troppa convinzione, attratto più dagli aspetti esteriori, folcloristici e gastronomici che da quelli dottrinari o spirituali. Direi che niente mi è più estraneo di una visione religione dell’esistenza. Ciò detto, non posso negare che il mio legame con il giudaismo sia complesso e irrisolto.
Può aiutarci a capire?
Diciamo che tale complicata identità ebraica – ammesso che abbia un senso definirla così – si basa dell’interazione di cose molto diverse tra loro, alcune di una tragicità intollerabile, altre molto divertenti. Partirei dalla Shoah (anche se parlarne mi imbarazza): da che ho memoria gli echi di quel massacro inconcepibile hanno agito pesantemente, e direi, irrimediabilmente, sul mio immaginario e sulla mia psiche, con tanto di sogni ricorrenti che continuano a perseguitarmi.
In questa storia c’è spazio anche per Israele: un paese che, a dispetto dei benpensanti di destra e di sinistra, mi suscita uno strano sentimento di vicinanza che, in determinate circostanze, può degenerare in una forma un po’ melensa di patriottismo (una cosa ridicola tenuto conto che sono stato in Israele tre o quattro volte in tutto). Ma se proprio devo dirla tutta, ciò che più mi avvina all’ebraismo è un contegno che in realtà non appartiene solo gli ebrei: esso deriva dal convincimento che la vita sia una faccenda troppo dolorosa e insensata per essere presa seriamente. Pur non disponendo dell’armamentario culturale sufficiente per poter giustificare un’idea di ebraismo così vaga e generica, non posso fare a meno di aderirvi. Del resto, ciò che assimila gli scrittori, i pensatori, i cineasti, i drammaturghi, i pittori, i musicisti e persino i comici ebrei che amo e su cui mi sono formato – da Montaigne a Nora Ephron – è la perplessità di vivere che li affligge, e la voglia di scherzarci su.
Il libro con cui si fece conoscere al grande pubblico, Con le peggiori intenzioni, ha avuto un clamoroso successo, ma forse, come scrive lei stesso, non un’accoglienza altrettanto positiva nel mondo ebraico romano. Ce ne vuole parlare?
Ho un ricordo vivido del pomeriggio di parecchi anni fa in cui fui invitato a presentare Con le peggiori intenzioni in una scuola ebraica romana. Gli studenti mi sottoposero domande di ogni tipo, alcune anche stimolanti. Eppure, per tutto il tempo, ebbi la sensazione che sotto sotto non riuscissero ad accettare l’idea che un estraneo avesse scritto un libro così insolente sulla loro comunità. Nel corso degli anni, diversi ebrei romani, anche appartenenti alla mia famiglia, mi hanno mosso rimproveri analoghi. Benché non possa escludere che abbiano ragione, non ritengo tali obiezioni degne di nota, o almeno non da un punto di vista letterario. Non sta a me prendermi cura del buon nome di una confessione, di una comunità, di una famiglia. Ci sta che il milieu ebraico messo in scena dai miei libri abbia qualcosa di personale, di capzioso e di mitico. Ma è esattamente questo che fa di me uno scrittore. Finché avrò voglia di scriverne continuerò a farlo.
Nella sua scrittura si trovano tracce abbondanti di un’ironia a volte corrosiva. Philip Roth – anche lui uno scrittore al centro di forti polemiche nella comunità ebraica americana – è un autore che può averla influenzata?
Credo di averne parlato e scritto a sufficienza attraverso la mia attività di saggista e pubblicista. Mi lasci chiarire che, sebbene il mio debito nei confronti dei libri di Philip Roth sia sconfinato, sempre più nel corso degli anni sono riuscito a prenderne le distanze.
La famiglia sembra essere al centro del suo mondo narrativo (come moltissimi altri scrittori, e come Tolstoj insegna). Anche in questo crede di essere stata influenzato dal suo ambiente familiare? E se sì, in che modo?
In effetti, la famiglia borghese – un’istituzione ancora in auge sebbene in declino – è il nucleo della mia ispirazione letteraria. Una passione cui hanno contribuito entrambi i rami della mia famiglia, sebbene in apparenza io dia maggiore rilevanza a quello paterno. La mia ossessione si nutre di un’avversione per ogni tipo di appartenenza settaria, sia essa religiosa, politica, patriottica o per l’appunto dettata dalla consanguineità. Trovo i conflitti familiari interessanti e spaventosi a un tempo, per questo degni di essere indagati e messi in scena.
Vivendo un po’ a margine, per così dire al confine, del mondo ebraico romano, che idea si è fatto in generale dell’ebraismo italiano?
Su questo argomento non so che dirle. Noto – ma così, da spettatore inquieto – che da qualche anno a questa parte le grandi religioni monoteiste hanno preso una deriva fondamentalista.
Esiste una letteratura ebraica italiana? Se esiste, che caratteri distintivi possiede? Lei pensa di farne parte?
Data la natura sostanzialmente indefinibile dell’ebraismo, sarei tentato di risponderle che non ha senso porre una manciata di scrittori nella stessa categoria solo perché condividono ascendenze ebraiche. Ciò detto, ritengo che esista una linea ideale che unisce alcuni grandi scrittori italiani del secolo scorso, una linea che non posso fare a meno di definire “ebraica”: Svevo, Saba, Levi, Sereni, Ginzburg, Debenedetti, Bassani e via dicendo.
Attualmente lei è anche curatore della collana “I Meridiani”, forse la più prestigiosa collana editoriale italiana. Lungo quali linee editoriali sta svolgendo questo ruolo?
Vorrei attenermi ai principi che hanno ispirato questa collana sin da quando più di mezzo secolo fa venne fondata da Vittorio Sereni. Non è facile raccogliere un’eredità pesante come quella lasciata da Renata Colorni. È stata lei, sbaragliando la concorrenza, a trasformare “I Meridiani” nella più “prestigiosa collana editoria le italiana”. Per quanto mi riguarda, vorrei dare meno spazio agli scrittori viventi, e concentrarmi su quelli che il mio professore di greco chiamava i “classici immortali”: Dickens, George Eliot, Apollinaire, tanto per fare i primi nomi che mi vengono in testa. Allestire un “Meridiano” è un’operazione molto più complessa di quanto immaginassi. Le difficoltà sono anzitutto di carattere tecnico: i diritti, gli agenti, i traduttori, i curatori, i revisori. Tutto il resto è poesia.
Agnon sarà presto uno degli autori ospitati nei Meridiani. Ci sono altri autori ebrei in vista?
Come le dicevo, ho difficoltà a dividere i grandi artisti per categorie religiose. La scelta di Agnon è stata dettata da ragioni editoriali ed estetiche. Si tratta di uno scrittore imprescindibile che in Italia non gode ancora di grande popolarità. Mi auguro che i “Meridiani” possano contribuire a una più larga diffusione delle sue opere.
Sta lavorando a un nuovo romanzo?
Non riesco a concepire una vita priva di un cantiere in fermento.
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Una risposta
Risposte elusive a domande dirette, Piperno ricalca i modi sfuggenti e ambigui di certi suoi personaggi, facendo di se stesso, del suo sé più vero, una finzione.
La sua opera, che malgrado certa sua avversione “per ogni tipo di appartenenza settaria” sfrutta a piene mani la singolarità ebraica: il suo senso di appartenenza e di identità, è certamente tra le più autorevoli del panorama delle lettere italiane (a dire il vero piuttosto povero oggidì). Ma è comunque un’opera il cui contenuto (mai la forma) suscita non poche perplessità, offre il fianco quanto meno al fatto che il disegno di (s)parlare dell’ebraismo romano e dei suoi pendant sociali e culturali sia un colpo da maestro che serve lo scrittore ma rende cattivo servizio al suo soggetto.