Nella traduzione e nella scrittura sono alla ricerca di altri mondi, e di me
Elena Loewenthal è una delle figure più note del mondo culturale italiano; a Riflessi racconta di come è nata la sua passione per la traduzione, e che significa dare una “voce italiana” ai grandi narratori israeliani
Elena Loewenthal, iniziamo da lei: può raccontarci in breve qualcosa sulla sua famiglia?
Il mio cognome deriva da quello del mio nonno paterno, sceso in Italia dalla Germania alla fine dell’Ottocento. Il ramo materno invece fa Luzzati, pienamente piemontese, le cui origini risalgono a oltre 500 anni fa, trasferitisi a Torino provenendo da piccole comunità locali confluite in città, oggi scomparse. Quanto a me, vengo da una famiglia molto laica, e dall’età di 13 anni provo a chiedermi chi sono, come credo si veda in tutto quello che faccio; anche la traduzione fa parte di questo cammino, in cui mi trovo dentro un’identità che continuo a cercare di decifrare. Come disse Freud a un suo paziente ebreo incerto se circoncidere il figlio appena nato, “l’ebraismo è un insieme di valori, che non vanno di per sé abbandonati”.
Come si diventa traduttrici?
Nel liceo ho capito che qualcosa in me non funzionava, perché andavo contenta ai compiti in classe di greco e latino, mi divertivo a svolgerli, al di là degli esiti, mentre nessuno dei mei compagni reagiva così. Invece non ho studiato l’ebraico, avendo frequentato scuole pubbliche. Poi, all’università, mi sono avvicinata alla lingua. Posso dire che mi è sempre piaciuto tradurre. Con gli autori israeliani ho cominciato in tandem con la lettrice israeliana dell’università, mentre il primo libro con cui ho iniziato è stato “La rondine nell’anima”, di Michal Snunit, e poi “Arabeschi”, di Anton Shammas. E così ho cominciato.
Uno dei libri da lei tradotti e amati dai lettori italiani è “Una storia di amore e tenebre”, di Amos Oz. È stato difficile dare un’altra voce a un libro fiume così intenso, dove storia, letteratura, memoir sono continuamente intrecciati?
Posso dirle che per me è stata l’esperienza traduttiva più avvolgente e intensa che abbia mai avuto; forse solo il lavoro in cui sono impegnata ora, la traduzione integrale delle opere di Agnon, potrà darmi le stesse sensazioni. Oz è l’ultimo scrittore arrivato in Italia della triade, assieme a Yehoshua e Grossman. Qualcosa era già stato tradotto da Bompiani, però non so perché non decollava. Poi mi capitò di leggere in ebraico “Davanti al mare”, uno stranissimo romanzo in versi, dal contenuto sfuggente – io credo che siano storie d’amore in cui c’è un confine invalicabile tra soggetto e oggetto dell’amore – che è un libro straordinario. Allora parlai con Monica Randi a quel tempo responsabile per la narrativa straniera di Feltrinelli, e insistetti perché ne acquistasse i diritti; lei si convinse e me lo diede in traduzione. Il libro era meraviglioso, poi Inge Feltrinelli capì l’importanza dell’autore.
Da allora il principio seguito da Feltrinelli con Amos Oz era che si doveva pubblicare ogni suo libro con molto tempismo. Quando stava scrivendo “Una storia d’amore e tenebra”, io lavorai sul dattiloscritto, e la nostra fu la prima traduzione in assoluto, al punto che ci sono delle discrasie rispetto ad altre edizioni, perché io lavoravo sulle sue bozze; ad esempio a me “manca” la pagina su una tartaruga, che Amos aggiunse successivamente. Lavorare sul dattiloscritto, con le sue note a margine, fu straordinario. Da lì è iniziata un’amicizia con Amos e la sua famiglia, lui aveva rapporto con mio figlio motivo per me di commozione. Per me Oz è l’autore più limpido dei tre. Non ho mai trovato difficoltà nei suoi libri, e non perché non siano complessi. Con la sua scrittura si insatura una intimità che oggi ancora mi manca.
Pochi giorni fa è scomparso A. B. Yehoshua. Come ricordava, assieme a Oz e Grossmann a lungo ha espresso alcune delle pagine migliori della narrativa internazionale degli ultimi anni.
Voglio dire innanzitutto che di A. B. Yehoshua, anche se non ho mai tradotto un suo libro, ho però fatto revisioni e controlli sui suoi primi romanzi: “L’amante” e “Cinque stagioni”. Perché va detto che traduzione vuole dire anche questo: affidare il lavoro fatto ad un altro traduttore per verificare e limare oggi passo, una buona abitudine che oggi non sempre è seguita. Poi vorrei aggiungere anche che mi pare riduttivo parlare solo di tre autori, quando pensiamo alla letteratura israeliana.
Pensiamo a Shabtai, per me è un grande autore. Ma anche Kaniuk, i due Shalev, Meir e Zeruya, quest’ultima una delle voci più forti in Israele, di cui uscirà a breve l’ultimo romanzo. Keter invece è un autore è fluido, un intellettuale contemporaneo, appartiene già a altro universo. Anche Eskhol Nevo è un autore che si gusta, si apprezza, è certo un romanziere, anche se, per motivi generazionali, in loro non c’è il retaggio dei romanzi europei.
Secondo lei perché invece Yehoshua, Oz e Grossman hanno un successo così ampio e duraturo?
È una letteratura molto particolare. Io credo che il segreto è una certa ambiguità: di fatto Oz, Yehoshua e Grossman si innestano nella grande tradizione del romanzo europeo, specie quello russo; nelle loro pagine si sente un’aria di casa. Al tempo stesso però sono autori esotici, perché parlano di altri mondi e ritmi. Questo binomio è spiazzante, questa ambiguità spiega il loro successo; il lettore italiano si sente un po’ a casa e un po’ spaesato. Al fondo, però, c’è il fatto che anche il lettore comune sa distinguere un grande libro, e questi autori ce ne hanno regalati molti.
Il fatto che né Yehoshua né Oz abbiano vinto il Nobel, si può spiegare con motivazioni politiche?