Le autorità italiane sapevano
Giordana Terracina da anni studia la politica del Medio Oriente. Tra i suoi articoli, quelli sul “lodo Moro”. In questa intervista spiega perchè il 9 ottobre del 1982 le cose potrebbero essere andate diversamente da ciò che la magistratura ha accertato
Dottoressa Terracina, come è arrivata a occuparsi del “lodo Moro”?
A causa del mio percorso di studi. Dopo la laurea in giurisprudenza, infatti, ho conseguito il master in didattica della Shoah diretto dal prof. David Meghnagi, e poi ho collaborato con la Fondazione museo della Shoah; attualmente sono al secondo anno del mio dottorato in storia contemporanea, oltre a lavorare nella segretaria del Cerse [Centro romano di studio dell’ebraismo, presso l’università Tor Vergata, n.d.a.]. In questo ambito di studi ho avviato una ricerca, laureandomi, nel master di cui le dicevo, con una tesi sulla deportazione degli ebrei libici del 1942, a partire dall’applicazione delle leggi razziali in Libia, passando per i campi di internamento del ‘40 e del ‘42, fino alla deportazione avviata in Libia e in Tunisia.
Scusi, ma tutto questo come c’entra con il “lodo Moro”?
Ora glielo spiego. Nei miei studi sugli ebrei del nord Africa, e in particolare della Tunisia, ho precisato la figura del gran muftì di Gerusalemme, sfociata poi in un convegno. Da qui sono passata a interessarmi della nascita del panarabismo, e di come abbia influito a ciò il fascismo, su cui a breve uscirà un mio nuovo articolo. È proprio da questa volontà di comprendere le origini dell’antisemitismo mi sono interessata all’antisionismo come forma d’antisemitismo, per evidenziare come nei paesi arabi c’è stata spesso continuità tra antisemitismo e antisionismo. In questo modo, sono arrivata a studiare gli anni ’60-’80, periodo in cui va calato il “lodo Moro”.
Su quali carte si è documentata?
Innanzitutto su quelle dei diversi Consiglieri diplomatici della Presidenza del Consiglio dei ministri. si tratta di carte conservate in un fondo custodito presso l’Archivio centrale di Stato, diviso in due parti: quello dalla fine della II guerra mondiale fino al ’69, liberamente accessibile; e quello dal 1970 al 1988, che contiene carte ancora oggi riservate, che possono essere date solo in lettura, e che possono essere studiate solo con esplicita autorizzazione del ministero degli interni, cosa che ho chiesto e ottenuto, potendo così approfondire le mai conoscenze.
Veniamo allora al “lodo Moro”. Cosa può dirci?
Nei documenti del secondo versamento sono contenuti i rapporti che la Presidenza del Consiglio ha avuto con i vari Stati esteri; si tratta di oltre 100 buste. Io ho consultato quelle relative agli Stati arabi. In questo modo è possibile ricostruire le vicende relative al c.d. “lodo Moro”, specie in riferimento alle relazioni diplomatiche e internazionali.
E cosa ha trovato in queste carte?
Per esempio sono interessanti le relazioni intrecciate dal nostro Paese in ambito Onu. Si possono esaminare, ad esempio, le varie posizioni su Arafat, e la scelta che a un certo punto le nostre autorità fanno di considerarlo l’unico interlocutore di tutta la causa palestinese. Insomma, in queste carte si può leggere la politica italiana verso il mondo arabo.
Dove sono sfociate le sue ricerche?
Al momento, in 6 articoli pubblicati su un giornale online (reggioreport.it, n.d.a.), assieme a Gabriele Paradisi, e negli articoli pubblicati di recente su Il Riformista.
Da dove è partita per disegnare la nostra politica estera in medio oriente?
Dall’attentato di Fiumicino del 1973, periodo in cui i ministri di Algeria e Arabia saudita arrivano per la prima volta in Italia. Dalla lettura dei verbali si ricava che la causa che porta il nostro paese a intensificare i rapporti con questi paesi non è solo la crisi energetica.
Che idea si è fatta?
Dobbiamo fare un passo indietro. All’inizio degli anni ’60 si comprende come fosse necessario per l’Italia costruirsi delle alleanze in ambito internazionale, e nell’Onu in particolare, per affrontare la questione altoatesina sollevata dall’Austria. Io credo che in quel periodo l’Italia avesse la necessità di avere appoggi in ambito Onu. In quegli anni, infatti, l’Austria sosteneva di avere voce in capitolo per difendere la causa della popolazione di lingua tedesca. Si trattava di una controversia internazionale per noi molto delicata, aperta fin dagli anni 60- 61. L’Italia dunque cercava alleanze nel mondo, in Centro e Sud America, o in Africa, dove stavano sorgendo nuovi Stati sulla spinta del principio dell’autodeterminazione dei popoli. Mettiamo insieme alcune date per capire lo scacchiere internazionale: nel 61 la Lega araba apre un suo ufficio in Italia, nel 64 nasce l’Olp, nel 67 c’è la guerra dei sei giorni, poi nel 73 la crisi energetica.
Dunque il lodo Moro è un modo per ottenere la compiacenza araba in altre questioni internazionali per noi di interesse?
È possibile. Bisogna leggere queste carte con quelle consultabili dopo la direttiva Renzi, che ha consentito di desecretare altri documenti, liberamente accessibili agli studiosi. Mettendo insieme le carte, la mia convinzione è che il lodo Moro sia composto da più livelli. C’è un livello diplomatico, realizzato in sede Onu, un altro che riguarda i rapporti tra Stati, che attiene alla politica internazionale italiana; infine c’è un livello operativo, quello affidato ai servizi, in particolare a funzionari come Giovannone.
Che realtà ne esce fuori?
Molto complessa. Il “lodo Moro” non riguarda solo il consenso dato a un passaggio d’armi sul nostro territorio o il rilascio di terroristi palestinesi arrestati nel nostro paese. C’è un altro livello, più alto, in cui è evidente la responsabilità politica, una volontà confermata da vari ministri, a partire certo da Aldo Moro. L’obiettivo è stato porre la questione palestinese al centro della ribalta internazionale, e di legittimare Arafat, invece di altri soggetti – come Gheddafi, o l’Iraq.
Perché questa legittimazione di Arafat?