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Vi racconto un po’ della mia vita: in giro per Israele (anni 1973-1976)

Rav Gianfranco Di Segni continua a raccontarci qualcosa della sua vita: oggi ci parla del suo Diploma triennale (Bachelor of Sciences, B.Sc.) e delle esperienze di quegli anni, tra nuove conoscenze e tristi addii

Dopo il ritardo forzato dovuto alla Guerra del Kippur, di cui ci hai raccontato nella puntata precedente, parlarci di quel che avvenne poi: quando partirono i corsi all’Università e come erano strutturati?

Un giovane Rav Gianfranco Di Segni
Un giovanissimo Rav Gianfranco Di Segni

Partirono a fine dicembre del ’73. Gli studi del primo anno di Biologia si svolgevano tutti nei nuovi edifici dell’Har haTzofim. Io mi ritrovai nel corso composto quasi tutto da ragazze, che erano state rilasciate dall’esercito prima dei maschi, e dai pochi stranieri come me. C’era anche qualche israeliano che al momento dello scoppio della guerra si trovava all’estero e non era stato inquadrato nelle forze regolari. E ovviamente, c’erano i cittadini arabo-israeliani (che a Gerusalemme erano un discreto numero), con alcuni dei quali feci amicizia. Tutti gli altri studenti del primo anno iniziarono mesi dopo e solo alla fine dell’anno i due corsi si unificarono.

Il corso di matematica era tenuto da una brava, giovane docente con una bella faccia tonda che mi è rimasta impressa: Anna Bauman. Questo nome allora non mi diceva niente. Anni dopo venni a sapere che era la figlia del filosofo Zygmunt Bauman, che sarebbe divenuto molto famoso negli anni ’80. Quel corso di matematica mi andò bene. Era il primo esame in assoluto dell’anno e presi 100 (una sorta di rivincita rispetto al magro risultato che avevo ottenuto in matematica l’anno prima alla maturità, che per fortuna fu allora compensato dai voti nelle altre materie).

Zygmunt Bauman (1925-2017), filosofo ebreo polacco

Anche in Fisica andai bene e presi 95, se ben ricordo fu il terzo miglior voto della classe (eravamo una settantina in quella classe). In Israele i voti sopra al 90 sono considerati eccellenti. I buoni voti iniziali però mi abituarono male: infatti, quando in altri corsi presi meno di 90 ne fui contrariato. All’esame di Chimica generale ottenni 80 e feci ricorso (era abbastanza comune fare ricorso, visto che gli esami sono scritti e non c’è modo di contestare al momento). Non lo vinsi. Il prof del corso (Jacob Shamir) mi disse: “Ma di che ti lamenti, 80 è un ottimo voto!”. Le sue parole mi rassicurarono e ho un ottimo ricordo di lui e delle sue lezioni. Il prof. Shamir era uno dei pochissimi docenti che portava la kippà (ne ricordo solo altri due o tre, e anche fra gli allievi i religiosi erano pochissimi: solo una o due kippòt oltre alla mia). A volte, vedevo di Shabbat al tempio anche chi non portava abitualmente la kippà. Una volta, nell’ascensore alla Hadassah, durante il Master, vidi un professore della Facoltà di Dentistica senza kippà ma sotto la camicia intravidi il segno evidente del talled qatan. Della serie, non solo l’abito non fa il monaco, ma può capitare che uno sia monaco senza averne l’abito.

In un paese in cui si rimarca l’appartenenza a un gruppo piuttosto che a un altro (religiosi, laici, charedìm, massortìm, litaìm, chasidìm di varie correnti, sefarditi, ashkenaziti, kippòt serugòt – ossia all’uncinetto, kippòt shechoròt – nere, e così via), sarebbe bene non dare troppa importanza alla forma e al colore della kippà. Infatti, da una ventina d’anni personalmente ho l’uso di portare nei giorni feriali una kippà shechorà-serugà (nera, ma all’uncinetto) mentre di Shabbat e nelle feste una kippà serugà bianca con decorazioni. Uno dei miei docenti israeliani al Collegio rabbinico negli anni ’90 (ve ne parlerò un’altra volta) mi raccontò che una volta l’avevano invitato in un certo posto in Israele a tenere una lezione. Lui accettò ma poi, dato che portava una kippà serugà colorata, come in uso negli ambienti religiosi-sionisti (secondo la scuola di rav Kook), e dato che il pubblico sarebbe stato composto di charedìm, gli consigliarono di mettersi una kippà nera. Il Rav replicò: “Se giudicano una persona non in base alla sua chokhmà ma in base al colore della kippà, be’ non vale la pena che vada lì a fare una lezione”. E non ci andò. Grande insegnamento!

Dimmi meglio del corso di fisica, mi interessa anche personalmente.

qui e più sotto: un appunto preso dal Rav durante i laboratori di fisica

Ne fui entusiasta. Al Liceo classico in Italia la fisica si fa (o si faceva) poco o niente: leve, carrucole e cose del genere. Non è proprio il massimo dell’interesse. Non ebbi la minima idea di cosa fosse la fisica fino al primo anno di Biologia in Israele. Sulla scia delle lezioni, iniziai a comprare e leggere avidamente le opere di e su Galileo e Newton, Einstein e Bohr e gli altri protagonisti della fisica del Novecento. La fisica era diventata per me una passione. Gli anni successivi seguii anche i corsi complementari di Fisica II, sulla relatività e la fisica dell’atomo, Matematica II e Storia della fisica con esercitazioni pratiche (mi è rimasta impressa quella con il piano inclinato, replicando gli esperimenti di Galileo sulla caduta dei gravi con le misurazioni tramite elastici a mo’ di corde musicali per calcolare i tempi – il padre di Galileo era un famoso liutista). A un certo punto del primo anno pensai che se fossi tornato indietro, avrei fatto Fisica all’università. Anche perché le materie biologiche del primo anno erano molto descrittive e poco interessanti (l’equivalente di leve e carrucole, per intenderci). Però, già dal secondo anno, quando iniziammo a studiare materie come genetica, teoria dell’evoluzione e biologia molecolare, mi resi conto che sì è vero, la fisica è la scienza basilare, la più perfetta, ma non c’è niente di più bello ed emozionante che studiare gli organismi viventi, su cui ancora c’è molto da scoprire. Nel dibattito Torà-e-scienza, che ogni tanto riaffiora, la divergenza fra religiosi e spiriti liberi non riguarda più il Sistema Copernicano rispetto a quello Tolemaico, come all’epoca di Galileo. A nessuno interessa più discutere se è il Sole che gira attorno alla Terra o viceversa (terrapiattisti a parte). È quando si toccano le questioni dell’evoluzione e dell’origine della vita e dell’uomo che spuntano ancora molte remore da parte dei religiosi ad accettare quanto la scienza dice. La mia preparazione di prima mano, e non per sentito dire, nel campo biologico risulta un valore aggiunto quando vengo coinvolto in dibattiti del genere. E a scanso di equivoci, per me l’evoluzione è un principio solido e accertato, da cui non si può prescindere. Come dice il Talmud, “il giudice non giudica se non in base a quanto i suoi occhi vedono”. E i miei occhi vedono la selezione naturale e l’evoluzione in laboratorio quotidianamente (vabbè, la vedevano, finché stavo al banco).

rav Abram Kook (1865-1935)

Al primo anno c’era anche il corso di laboratorio di fisica. Eravamo divisi a coppie, si faceva un esperimento a settimana e poi si doveva redigere la relazione (il doch – ossia din we-cheshbon, rendiconto), ovviamente in ebraico: ma per me una cosa era l’ebraico parlato, in cui me la cavavo, un’altra quello scritto. Avevamo ricevuto tre quaderni, così che l’istruttore aveva tempo due settimane per valutare la relazione e ridarcela corretta, con il voto. Nel primo quaderno scrissi sotto al mio nome, in bella vista, Olè Chadàsh. Quando l’istruttore (mi sembra fosse russo) me lo restituì, vidi che sotto aveva scritto: Naìm meòd, gam anì (“Molto piacere, anche io”). Peraltro, “naìm” era scritto con un errore ortografico, con la alef anziché la ‘ayin, chissà se intenzionale o meno. Da quel giorno smisi di accampare diritti in quanto straniero che non mi spettavano…

Hai detto prima che c’erano studenti arabi nel tuo corso. Avevate interazioni con loro?

(continua a pag. 2)

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