Tradizione, modernità, antisemitismo, calo demografico: ecco pericoli e sfide dell’ebraismo italiano
Fiona Diwan da oltre dieci anni racconta l’ebraismo italiano dalle pagine del giornale della comunità di Milano. A Riflessi si racconta: la sua famiglia, la sua professione, il futuro dell’ebraismo italiano
Fiona, mi dai anzitutto qualche elemento per orientare i nostri lettori? Per esempio da quale parte del mondo arrivi?
Dall’Italia! Io sono nata a Milano nel 1958, primogenita di 3 fratelli. Mio padre arrivò nel 1946, con l’Italia ancora distrutta dalle bombe. Lui proveniva dalla Siria, via Beirut, passando prima a Genova. Mi ricordo che raccontava ancora delle macerie in via Larga che lo accolsero al suo arrivo a Milano.
Che famiglia è stata la tua?
In casa mia l’identità ebraica era molto sentita ma era di quel genere che si aveva allora, in linea con lo spirito del tempo: direi tradizionalista, nel senso che non c’era una grande conoscenza halakico-religiosa; si osservavano le feste e lo Shabbat, ma senza molta enfasi o consapevolezza, come invece avviene maggiormente oggi. L’ebraismo era estremamente radicato, per ragioni di carattere storico, direi. C’era la consapevolezza della persecuzione presente anche nei paesi arabi, e dunque il dovere di essere ebrei, quasi un imperativo morale e esistenziale da perseguire. Inoltre, a casa nostra c’era il portato dell’ebraismo mediorientale con le sue tradizioni. I miei erano francofoni e venivano da un mondo arabo respingente, i miei nonni sono nati nell’Impero ottomano, dove gli ebrei erano considerati cittadini di serie C anche se c’è da dire che dopo, nell’epoca mandataria, con il colonialismo francese, gli ebrei vissero un periodo relativamente prospero. Tutto questo retaggio venne portato in valigia e giunse anche a Milano.
Tu hai sempre fatto la giornalista. Ci puoi descrivere, in breve, la tua carriera?
Devi sapere che mio nonno materno, Toufik Mizrahi, era un ebreo di Beirut, ed era un grande giornalista, un pioniere, editore, fondatore e direttore di un giornale ancora esistente oggi: “Le commerce du Levant”, all’epoca in formato da quotidiano, era un giornale economico-politico, che ha fatto la storia del Libano francofono e occidentalizzato. In seguito, mio nonno è stato condannato a morte in contumacia nel 1960, per spionaggio a favore di Israele, e perse tutto, dovette scappare. Le accuse furono in seguito ritirate e il processo fu rivisto, risultò essere una montatura al fine di “incamerare” il giornale a costo zero. I suoi due figli, David e Eddy Mizrahi, sono stati entrambi giornalisti; uno a New York, dove ha fondato “The Middle East Report”, giornale economico sul Medioriente, presto diventato un faro per gli investitori americani nell’area. Insomma, io divento giornalista anche perché questa è la storia della mia famiglia. Tuttavia ho sempre amato scrivere e raccontare la realtà, fin da piccola. Anche se ci sono arrivata per gradi.
Cioè?
Con la maturità (alla scuola ebraica) decido di fare l’Aliyà, provenendo da un mondo ebraico milanese estremamente secolarizzato: vivo un anno e mezzo alla Hebrew University di Gerusalemme, Monte Scopus, dove faccio studi sul Medioriente (Misrachanut). Tornata a Milano, mi iscrivo a Lettere e Filosofia specializzandomi su un filosofo del XX secolo, Gaston Bachelard, e divento giornalista con un praticantato al Corriere d’Informazione e all’IFG. A 23 anni vengo assunta a Panorama, come la più giovane di tutta la redazione. Lì divento consapevole della mia dimensione ebraico-cosmopolita. In un Paese che non sa le lingue e sa poco del resto del mondo, capisco che posso dare un contributo a comprendere una parte di mondo, e mi rendo conto anche che gli ebrei sono qualcosa di percepito in modo poco definibile e chiaro: in fondo sconosciuti, una presenza difficile da decodificare, associati automaticamente a Israele e stigmatizzati dalla sinistra, all’epoca tutta filo araba. Intanto passa il tempo. Mi offrono di diventare caposervizio nel gruppo Condé-Nast, a “Uomo Vogue”, poi divento caporedattore, e in seguito, in Mondadori, torno a ricoprire l’incarico di inviato speciale, per il settimanale “Grazia”. Dopo qualche anno accade che la DARP, DeAgostini Rizzoli Periodici, mi chiami per dirigere un mensile di viaggi e life style, “GULLIVER”, che dirigo fino al 2002; ritornata in Mondadori, la casa editrice di Segrate mi offre la condirezione di “FLAIR”, il mensile di punta che avrebbe dovuto sostituire “Marie Claire” sul mercato dei periodici femminili. Dopo questa esperienza vado a lavorare in Gruner Und Jahr-Mondadori, – la casa editrice del settimanale tedesco “STERN” -, che sta lanciando l’edizione italiana del mensile “GEO”, concorrente nel National Geographic, e ne dirigo la start-up, il lancio e i primi anni di vita. Inizia qui anche la mia collaborazione con numerosi quotidiani nazionali. Infine, nel 2009 arrivo a dirigere BetMagazine-Bollettino e il sito web Mosaico, ed entro così nel mondo della comunicazione ebraica.
Che differenza c’è tra fare informazione dentro e fuori il campo ebraico?
Sotto certi aspetti non cambia molto, ma per altri cambia davvero tutto. Prima del 2009, anno in cui presi la direzione dei media CEM, seguivo le vicende ebraiche in modo laterale, da osservatore; mi piaceva l’idea di portare nel mondo comunitario una narrazione di sé e del mondo esterno più aderente ai fenomeni e ai linguaggi della contemporaneità. In verità, presto mi accorgerò che l’angolo di osservazione ebraico è un cannocchiale puntato sul mondo, un setaccio attraverso cui filtrare i macrofenomeni e leggere l’attualità, insomma uno sguardo privilegiato, un antenna molto sensibile dei fenomeni che attraversano il corpo sociale. E che al di là della cronaca comunitaria, sarebbe bello, nel contempo, provare a leggere il proprio tempo in chiave anche ebraica, declinando il variegato ventaglio di sfumature nel modo di vivere la condizione ebraica alla luce della realtà milanese e nazionale. Questa è stata la mia idea di partenza. Tuttavia, non volevo entrare a gamba tesa. Ho cercato di rispettare quello che avevo trovato e i suoi equilibri: il cambio di stile e di passo è giunto poco a poco, insieme a una maggior sensibilità per l’immagine, un’attenzione al dettaglio dei contenuti – perché i dettagli sono tutto -, nel rispetto delle tante sensibilità presenti all’interno del mondo ebraico cittadino. Credo nella gradualità dei processi, specie nel nostro piccolo mondo ebraico, cercando di rispettare le diversità e di essere super partes, dando voce a tutti, raccontando la realtà ebraica per quella che è, a 360 gradi, italiana e internazionale. E raccontando gli “smottamenti” all’interno e all’esterno desll’ebraismo, in un confronto serrato con la contemporaneità e i suoi linguaggi, i suoi fenomeni socio-culturali e politici.
Quando prendo in mano i vecchi faldoni di ritagli di giornale degli anni Novanta, che ancora conservo, resto sbalordita dalla quantità di articoli di argomento ebraico che strappavo e conservavo. O ancora, i numerosi reportage e interviste a personaggi del mondo ebraico e israeliano fatti in passato, per i vari giornali italiani. Mi accorgo, a posteriori, che l’ebraismo è stato un sottile fil-rouge nella mia carriera giornalistica, un dato sotterraneo nella costruzione della mia professionalità, fin dalle prime interviste a Primo Levi o Elie Wiesel per il Corriere Medico, quando avevo 21 anni, e a quelle a Abraham B. Yehoshua, a Ian Buruma e Avishai Margalit e molti altri, più recenti, solo per citarne alcune.
È difficile rappresentare il mondo ebraico all’esterno?
È difficilissimo. Il più delle volte la percezione esterna è di tipo stereotipato: spesso gli ebrei vengono avvertiti come gente indefinibile, ripiegati su se stessi, solidali ma solo all’interno del proprio gruppo. Quando poi si scopre che il mondo ebraico è frammentato e ha mille anime e innumerevoli opinioni, beh allora è lo sconcerto generale, gli altri non si orientano più. In Italia, in particolare, c’è spesso il problema di spiegare agli altri chi siano davvero gli ebrei visto che la presenza ebraica non fa massa critica ed è irrilevante numericamente. Questo spiega perché sul nostro sito Mosaico, molto visitato, e sui nostri social – gli account Facebook e Twitter – si cerchi di essere estremamente fruibili e comprensibili. Ma stando attenti a restituire in modo pacato i sussulti e le diatribe interne spesso così vivaci e sanguigne, che una volta trasferiti sui social rischiano di essere amplificate; mentre sull’edizione cartacea, rivolta esclusivamente agli iscritti, offriamo una comunicazione meno filtrata.
Come te la cavi a rappresentare le varie anime dell’ebraismo milanese?
Una risposta
Complimenti per una storia familiare e personale così importante, avventurosa e di successo …
Buon lavoro alla dottoressa Fiona Diwan ….!!!