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Tra piccole e grandi comunità: il coraggio che serve alla nuova leadership comunitaria

Benedetto Sacerdoti, 31 anni, è un giovane ebreo padovano che vive a Roma da 12 anni, ma che non ha mai reciso le radici con la sua comunità d’origine. Di formazione economista, una specializzazione a Londra, si occupa di pianificazione strategica in una azienda di telecomunicazioni, mentre in ambito comunitario ha fondato e fa parte del consiglio dell’associazione “JEvents” ed è uno dei rappresentanti in Italia del World Jewish Congress; insomma, ha tutti i requisiti per darci una sua opinione sullo stato di salute dell’ebraismo italiano.

Benedetto, come è cambiato secondo te il modo di stare insieme negli ultimi tempi?

La realtà ha subito una profonda mutazione, anche prima del Covid. Negli ultimi anni, infatti, lo ‘stare assieme’, cioè i momenti di aggregazione, sono stati molto influenzati dai social media. Ciò ha avuto effetto anche sull’associazionismo ebraico, rallentando il bisogno di momenti di socialità, diradandoli. Adesso bisognerà valutare l’impatto della pandemia, che per un verso ci divide e ci separa, ma per un altro ci fa sentire di più il bisogno di stare assieme.

Dal tuo punto di vista, qual è lo stato di salute delle comunità ebraiche italiane?

Non è possibile scattare un’unica fotografia, perché la differenza tra piccole e grandi comunità è sensibile. A me sembra che nelle piccole comunità, a causa dei loro numeri così esigui, si sia però mantenuto un senso di appartenenza più forte e solidale; nelle grandi, viceversa, esiste un gruppo solido, che orbita attorno ai templi, e poi c’è una comunità molto più vasta che non appare, che non partecipa alla vita comunitaria, che non sembra interessata, o forse che non riesce a riconoscersi in essa. Molti sono di fatto gli ebrei che non si sentono più rappresentati dalle loro comunità di riferimento e se ne allontanano; tra questi, molti sono i giovani.

Se così è, quale politiche dovrebbero attuare le istituzioni comunitarie per tentare un recupero di questi ebrei lontani?

Ovviamente le nostre comunità si riconoscono nell’ebraismo ortodosso e nel rispetto dell’Halachà. Detto questo, a me sembra però che in alcuni casi quello che manchi è una certa sensibilità verso chi si trova ai margini; quasi uno scarso interesse. Al contrario, io credo che la comunità debba mostrarsi più aperta, più inclusiva, insomma più accogliente. Guarda ad esempio i Chabad: certo che sono religiosi e rispettosi dell’Halachà, ma sanno essere anche molto inclusivi, senza giudicare chi si presenta da loro e, anzi, andando a ricercare e ad avvicinare chi si sente meno coinvolto. Io credo che chi si vorrà impegnare nelle istituzioni dovrà lavorare per far sentire tutti più a loro agio all’interno della comunità.

Per sintetizzare: che qualità dovrà avere la leadership comunitaria dei prossimi anni?

Avremo bisogno di una leadership più lucida, e se vuoi anche più coraggiosa di come è oggi. Occorrerà molta dedizione e molto impegno. E poi anche coraggio. Occorre farsi carico del tenere insieme le nostre comunità, riavvicinando chi oggi non sente di farne parte. Insomma, le parole d’ordine sono: essere più inclusivi e accoglienti. Tutto questo richiede molto impegno e molta collaborazione

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