In generale, io credo che nessuno abbia il diritto, dentro l’ebraismo, di ostracizzare ed escludere gli altri, o di etichettare qualcuno come un ebreo “che odia sé stesso”. Naturalmente non sono d’accordo per niente con quel progetto, però ho sempre difeso la libertà di pensiero e di parola. Perché certi ebrei prendono queste posizioni? Chissà, anche qui ci vorrebbe la psicoanalisi; non escludo che per alcuni sia un malinteso interiore, o un nodo irrisolto con l’ebraismo, o un modo di mettersi in evidenza e distinguersi dal pensiero generale.
Resta il problema di respingere le accuse di chi afferma che la Shoah non è stata l’unico crimine contro l’umanità, e che noi ebrei vorremmo avere una “esclusiva” sul dolore.
Dobbiamo certo rispondere. L’unico modo per farlo è dire che la globalizzazione di tutte le tragedie è fare un impasto generico inaccettabile. Le morti vanno tutte rispettate, ma non tutti muoiono allo stesso modo per gli stessi motivi, e con gli stessi numeri. La Shoah è stata una tragedia con le sue specificità, è stato un assassinio gratuito senza giustificazione, non è stata una rappresaglia. In generale, io credo che ogni tragedia vada meditata, studiata, commemorata. A parte. Gli armeni hanno diritto al loro giorno di commemorazione, e così gli altri. Dobbiamo dare rispetto alle diverse tragedie. La commemorazione generica dà invece questo messaggio: è nella natura dell’uomo creare lo sterminio, per cui rassegniamoci. Io credo, all’opposto, che non dobbiamo mai rassegnarci a questo messaggio.
Nel suo libro lei esprime anche delle perplessità su un certo modo di vivere la propria identità ebraica oggi, come se per alcuni “il ghetto” non fosse completamente scomparso. A cosa si riferisce?
Ho parlato del ghetto perché, essendo di Venezia – la mia famiglia è qui dal Trecento – so che la forma mentale del ghetto è molto forte, e credo che lo sia anche a Roma. Questa idea si esprime in un senso tangibile di separazione. Possiamo trasformare questa percezione in senso ottimistico, dicendo che è la nostra kedushà; in realtà però io non sopporto quella tendenza di storici e intellettuali a costruire la storia del ghetto come se fosse stata una storia di bellezza esistenziale. Certo al suo interno è nata la poesia, la tradizione musicale, e per pochissimi anche il benessere; ma non si può parlare del ghetto affermando che la storia dell’ebraismo non è stata solo persecuzione. La realtà è questa: la nostra storia è una sfilza di persecuzioni. Perché c’è stata l’emigrazione russa? Per i pogrom; per non parlare naturalmente della Shoah. Dopodiché non ci tiriamo indietro e siamo felici di essere ebrei, ma dobbiamo sapere che la storia dei ghetti è una storia di chiusura e segregazione miserabili. L’ebraismo ha rappresentato il proletariato più infimo, anche dopo la fine del ghetto molti sono rimasti a vivere lì nello squallore. Condanno perciò la mistificazione della storia. Fra 100 anni faremo lo stesso con la Shoah?
Dalla sua prospettiva anche istituzionale – lei è presidente della comunità di Venezia – come vede l’ebraismo italiano? Siamo attrezzati ad affrontare tutte le questioni e i problemi che ha indicato?
A mio modo di vedere i nodi dell’ebraismo italiano sono due. Il primo è la spinta degli ultimi decenni verso “l’ortodossizzazione” della comunità ebraica, un obiettivo certo insito nel compito del rabbinato. Il secondo è una tendenza più o meno forte della popolazione ebraica di andare verso una assimilazione che permetta di essere come gli altri. Molti dicono che il ghetto è stato bello perché vogliono essere integrati in una società che ha creato il ghetto; desideriamo essere uguali agli altri, godere delle libertà del altri, e mantenere la nostra identità solo sul piano privato. Si sta creando una frattura tra questi due poli, c’è uno iato tra la dirigenza e la comunità. Se è vero che negli ultimi anni, soprattutto a Roma e a Milano, c’è stato un avvicinamento verso l’ortodossia, però, ad esempio qui a Venezia, c’è una spaccatura totale tra chi frequenta e chi non frequenta il tempio, e magari partecipa invece a un avvenimento culturale. Per molti è forte l’attaccamento identitario, ma molto meno alla vita religiosa.
Come si trova una mediazione?
Il nostro problema è che non siamo stati capaci di mettere insieme questi due interessi. Non posso pretendere che i laici vadano sempre al tempio, e che il religioso vada a tutte le conferenze o a tutte le occasioni sociali, però dovremmo trovare il modo di far convivere questi due modi di vivere l’ebraismo, sanando queste fratture ideologiche; se col rabbinato si può parlare (anche se non sempre ad ottenere), con alcuni cosiddetti “laici” è molto più difficile. Invece io credo che dovremmo assumere tutti il senso di responsabilità, per dare continuità e futuro alle nostre comunità.
Un’ultima domanda, tornando al suo libro. Lei si interroga sul problema della fede, per un sopravvissuto alla Shoah e per tutti coloro che fanno esperienza di quella tragedia. Ha trovato una risposta?
Credo che neanche da Dio ci si possa aspettare più di tanto; io non l’avrei portato in tribunale per discolparsi, come hanno fatti alcuni rabbini in passato. Se lei mi chiede su cosa poggia la mia fede, le rispondo che io credo moltissimo nella nostra tradizione, nella nostra identità, avverto forte il legame con i miei genitori, i miei nonni, la storia qui a Venezia, o ancora prima in Renania. A questa storia non voglio rinunciare, la sento fortemente mia; è fede questa? Non lo so. Loro hanno creduto in Dio, e allora anche io ho fede in Dio, anche se non vado sempre al tempio, anche se cerco di mantenere una casherut buona, ma non perfetta. Magari qualcuno può giudicare che sia insufficiente, e forse considerarmi un goy, però sa che le dico? Se smettessimo di considerare la maggior parte degli ebrei, anche quelli che fanno meno di me, dei goym, allora troveremmo un punto di incontro, in grado di dare una prospettiva al nostro futuro, quello di cui oggi c’è più bisogno.
Leggi anche l’intervista a Dario Calimani per Il viaggio nell’ebraismo italiano di Riflessi.