Cerca
Close this search box.

Quel giorno pagammo un odio lontano e diffuso

Alberto Di Consiglio racconta il suo  9 ottobre: l’attentato, i terroristi (e forse i loro complici), e quell’arma che si inceppò al momento di sparare…

Alberto, qual era il clima che si respirava in città e in ambienti ebraici in quell’estate del 1982?

Manifesto scritto dopo l’attentato (si ringrazia l’autore, Roberto Coen)

Vivevamo dei giorni davvero angoscianti. All’inizio di giugno era scoppiata la guerra in Libano, che sollevò un’ondata di antisemitismo che ci sorprese e ci depresse. Soprattutto perché gli attacchi non provenivano più dagli estremismi di destra e di sinistra, ma anche dal mondo della cultura, del giornalismo e da quella parte della società che fino a quel momento si era mostrata solidale e simpatizzante con Israele. Le critiche e gli attacchi erano molto duri, a volte feroci. Emergeva un odio verso Israele che veniva indicato come il male assoluto. Nel frattempo la guerra s’inaspriva. Israele, guidato da Sharon, arrivò fino a Beirut, e poi a settembre ci fu l’attacco delle Falangi maronite al campo profughi di Sabra e Chatila, che causò molti morti. Si era innescata una guerra civile tra opposte fazioni libanesi, che fu addossato in Europa ancora una volta alla responsabilità di Israele; infine, ci fu anche il terribile episodio di una bara lasciata davanti il Tempio Maggiore durante un corteo sindacale. In poche parole, all’inizio dell’autunno respiravamo attorno a noi un clima di odio, amplificato da quel che era avvenuto fuori Roma.

A cosa ti riferisci?

una scritta antisemita degli anni Ottanta

In quel periodo c’erano stati molti attentati dei terroristi palestinesi – credo legati al gruppo di Abu Nidal – ad obiettivi ebraici in giro per l’Europa. Avevano colpito a Parigi, a Vienna, ad Amsterdam, a Londra. Ci furono attentati a Sinagoghe e a ristoranti kasher. Anche in Italia, a Milano, pochi giorni prima ci fu un attentato al CDEC a Milano. Insomma era più di un anno che in Europa si sparava contro gli ebrei. Roma è stata l’ultima tappa di questa ondata terroristica antisemita, cui va aggiunto l’attentato all’aeroporto di Fiumicino, sempre ad opera di gruppi palestinesi, del 1985, ma quella è un’altra storia.

Prima dell’attentato la sicurezza era garantita?

Bisogna distinguere. Se ti riferisci alle forze dell’ordine, non c’era nessun presidio fisso, ma solo delle volanti che periodicamente passavano in zona. Un servizio di sicurezza (ma non solo) era nato dopo la Guerra del Sei Giorni del 1967.

Come era organizzato?

Prese forma tra il 1967 e l’inizio del 1968, anche se non si era ancora consapevoli che stavamo entrando nel clima degli “anni di piombo”. All’antisemitismo delle destre estreme si aggiunse l’antisionismo delle sinistre radicali, la nascita di gruppi violenti a sinistra come a destra, poi il bisogno di mobilitarsi per gli ebrei dell’Unione Sovietica; insomma, c’era molto da fare.

Tuo padre fu protagonista di quegli anni.

Pacifico Di consiglio, “Moretto” ( a destra) insieme a Moshè Dayan

Mio padre Pacifico (Moretto, n.d.r.) fu il fondatore e l’animatore di quella stagione. Riprese i contatti con le persone che appena pochi anni prima erano in prima fila per contrastare gli assalti del MSI al Portico di Ottavia e aggregò tanti volti nuovi, soprattutto giovani. Io allora avevo 16 anni. Tutte le festività erano affidate alla tutela di volontari, giovani e meno giovani, che cercavano di mettere in sicurezza i Templi. Io e mio padre iniziavamo Kippur un’ora prima, per esempio. C’era però un limite.

Quale?

Eravamo tutti volontari, c’era un volontariato puro. C’era chi studiava, chi lavorava. Non si potevamo coprire turni di 24 ore in continuazione. Questo spiega in parte anche l’attentato del 9 ottobre 1982.

Cioè?

Eravamo a Sheminì Atzeret, quasi alla fine delle feste. Dopo giorni e settimane di controllo, comprese le notti attorno i Templi, quella mattina eravamo abbastanza scoperti.

Tu dov’eri quel giorno?

Un talled insanguinato sulla cancellata del Tempio (copyright: Stefano Montesi)

A quel tempo il mio ufficio era a via Catalana, al civico n. 3, mentre i miei genitori vivevano al n. 5. Quella mattina andai al Tempio come tanti perché c’era la berakhà dei bambini, io ci portai mio figlio e mia nipote, tutti e due sotto i 5 anni. Entrammo al Tempio alle 10,30. Terminata la berakhà, mia madre riportò a casa i bambini, e così si salvarono.

Ci racconti quella mattina?

La polizia non era presente. Io avevo da tempo il porto d’armi, perché ero agente di commercio e per mia sicurezza mi muovevo armato, come molti in quel periodo, e poi come dicevo prima c’era un clima di grande tensione. Anche quella mattina avevo l’arma alla cintola ma prima di uscire dall’ufficio, per un gesto di rispetto verso il Tempio, misi la sicura. All’ingresso notai un paio di persone che mi insospettirono.

Perché?

Non erano italiani, avevano un’aria e le fattezze di uomini tipici del Nord Europa. Avevano degli zainetti sulle spalle. Come ti ho detto mi insospettii, finita la cerimonia mi misi ad osservarli da posizione un po’ defilata, sotto un lampione di via Catalana. Li osservavo, e per questo mi dimenticai di togliere la sicura. Davanti a me c’era un gruppo di amici, quasi sotto le palme che una volta stavano davanti all’ingresso del Tempio. Mi dissero di andare da loro, ma gli feci segno che non potevo, perché tenevo d’occhio quei due. Allora uno degli amici si staccò dal gruppo per venirmi incontro. In quel momento cominciò l’attacco.

Cosa ti ricordi?

Ci furono subito le detonazioni, e poi le raffiche di mitra. I terroristi erano all’altezza dal civico n. 1 di Via Catalana. Quando li vidi, feci per sparare, ma la pistola ovviamente non funzionò. Uno degli attentatori se ne accorse, e mi gettò addosso una bomba. Fui fortunato, perché quello sbagliò mira, e la bomba esplose davanti all’automobile che mi copriva. Così mi salvai. Fare addestramento al poligono è cosa diversa che trovarsi in una situazione di guerra improvvisa.

E poi?

9 ottobre 1982. Segni dell’attentato (copyright: Stefano Montesi)

Rientrai nel portone, e finalmente riuscii a mettere il colpo in canna. Uscii fuori, vidi un papà che teneva in braccio una bambina tutta sporca di sangue; era il sangue che colava dall’occhio che aveva perso il padre, colpito dalle schegge. Ma i terroristi erano scappati, quella era gente addestrata, esperti: colpire e fuggire.

Che altro trovasti fuori?

(continua a pag. 2)

4 risposte

  1. In quei momenti mi trovavo al Tempio di via Balbo con il Prof. Toaff, fummo avvisati dell’ attentato pregai il Professore di prendere un’ autovetta per arrivare velocemente a via Catalana ma si rifiutò. Lo scortati e volammo fino al luogo dell’attentato, anch’io ero regolarmente armato, e dopo gli eventi citati da Alberto Di Consiglio, chi era in possesso del porto d’armi scortati i Rabbino. Arrivammo di corsa e trovammo una situazione terribile. Ci fu concessa una stanza all’ospedale Fatebenefeatelli che divento la nostra sala operativa. Nel frattempo ricordo bene i primi politici ad arrivare furono il Ministro Darida, Spadolini e Pannella. Trascorremmo ore di vera angoscia.

  2. Purtroppo noi ebrei siamo sempre stati ” merce” di scambio.
    Il clima di terrore che si respirava in quei giorni era ,si dovuto alla guerra del Kippur, ma anche al malcontento che in quegli anni si viveva.
    Occorreva quindi qualcosa che distraesse l’opinione pubblica delle nefandezze dello stato. Con cosa si poteva fare??
    Far entrare sul suolo italiano un gruppo di terroristi e colpire la ” merce” di scambio!!
    Dopodiché far gesti di solidarietà alla comunità Ebraica.
    Ancora oggi assistiamo a sottili lanci di disprezzo attraverso i media. Solo che oggi le comunità Ebraiche sono molto più attente, e non lasciano passare le notizie svariate.
    Vedi il recente tentativo del Papa di classificare un testo sacro come la Torà, come testo ” obsoleto”
    …pazzesco!!

  3. Nel corso della serata con cui abbiamo segnato a Gerusalemme i 30 anni dall’attentato al Tempio di Roma e ricordato la tragica morte di Stefano Michael Gaj Tachè z”l (l’audio della serata è qui: http://www.hevraitalia.org/attentato82.mp3), ho avuto modo di esporre come vittima e testimone la mia ricostruzione del terribile evento.

    Visto che ho presentato alcuni elementi sfuggiti alla maggior parte delle persone e che costituiscono ancora oggi interrogativi angoscianti, vorrei condividerli con voi.

    1) La totale assenza delle forze dell’ordine, vigili urbani inclusi, intorno al Tempio solo quella mattina è un fatto assodato. Meno noto che il presidente Cossiga abbia dichiarato a Menachem Ganz: “Se avessi saputo che le volanti della polizia erano state istruite ad andarsene quella mattina, nell’ambito di quell’accordo di cui mi hanno sempre negato l’esistenza, forse tutto sarebbe andato diversamente…”. Cioè non lo sapeva allora, lo ha saputo dopo. Chi ha dato l’ordine?
    2) Le bombe a mano. In nessuno delle centinaia di attentati in Europa o in Israele compiuti da terroristi palestinesi sono mai state utilizzate le bombe a mano. Il motivo è semplice: in campo aperto se l’attentatore non trova immediato riparo resta colpito anche lui. Lanciare rimanendo in posizione eretta è contro ogni regola, ma è ciò che è avvenuto nel nostro caso con una distanza tra terrorista e vittime di soli 10 o 15 metri. E allora? I terroristi hanno evidentemente utilizzato bombe a carica ridotta da esercitazione lanciandole non tra la gente ma il più lontano possibile nel giardino, in zone dove non c’era nessuno: davanti al portone principale o verso il Tempio Spagnolo e questo posso affermarlo avendole viste volare sopra la mia testa. In pratica senza fare danni. Le bombe che ho seguito con gli occhi e che ho disegnato per i disinteressati inquirenti, avevano un manico: è un accorgimento che consente di lanciarle del 50% più lontano. Due bombe hanno causato il peggio: una ha colpito, probabilmente per un lancio errato, la colonnina dove oggi c’è la lapide ed è caduta per terra (dove ha lasciato un foro) tra le gambe di Stefano e Gadi e di alcuni dei feriti più gravi. La seconda lanciata verso il Tempio Spagnolo, quindi molto distante, è esplosa a mezz’aria colpendo e la famiglia Hazan che attraversava la strada. Queste considerazioni mi hanno convinto che l’attentato doveva essere dimostrativo, senza provocare vittime. Un maledetto imprevisto lo ha trasformato in tragedia.
    3) I mitra. In tutti gli attentati in Europa di quell’anno i mitra sono stati utilizzati per finire senza pietà i feriti dell’esplosione di ordigni ad alto potenziale. Nel nostro caso i terroristi hanno sparato in aria solo per coprirsi la fuga. Due di essi erano appostati a protezione degli altri all’angolo tra via Catalana e Portico d’Ottavia, dove i feriti più leggeri ed i soccorritori improvvisati transitavano correndo per raggiungere l’ospedale, ma non hanno interferito. Ancora, non volevano uccidere, sarebbe stato facilissimo.
    4) Il fotografo di via Catalana. Si chiama Roberto Barberini, ancora lavora. Si occupava di cronaca nera, spesso si univa alle “volanti”: cosa ci faceva in ghetto di sabato mattina, posto sempre tranquillo, e vicino al Tempio dal quale la nostra sicurezza lo avrebbe certamente allontanato? Aveva captato l’ordine dato alle forze dell’ordine di non presentarsi? O, visto che la sua seconda specializzazione era ed è la fotografia dei politici in pose casual, e quindi li frequentava, aveva ricevuto una dritta? Abbiamo sei o sette foto scattate da lui ai feriti con poco contorno e pubblicate dalle riviste. È facile capire dallo stato dei feriti che si è mosso da Portico d’Ottavia (prima foto a Shulamit Orvieto) verso le “tre palme” (ultima foto di Max Shangar caricato in un auto). In queste foto si vede che le forze dell’ordine non erano ancora arrivate, i soccorritori sono tutti ebrei: quindi ha iniziato a scattare subito dopo la fuga dei terroristi. Ma quante foto ha scattato senza pubblicarle? Un professionista che si trova in una circostanza del genere scatta un rullino dopo l’altro. Dove sono le altre foto, in particolare quelle a tutto campo? Possiede foto dei terroristi in azione? Qualche giudice ha disposto una perquisizione a sorpresa del suo studio? Non credo. Infine, perché non ha documentato il “dopo”, il dispiegamento dei soccorsi, le ambulanze, la rabbia di tutti noi ed è sparito nel nulla?
    5) L’arrivo delle forze dell’ordine. Uscito dall’appartamento dove mi ero riparato ho assistito all’arrivo delle forze dell’ordine giunte quando tutti i feriti erano già stati evacuati, io sono salito sull’ultima ambulanza. Chi è arrivato? Di tutti i corpi possibili la Guardia di Finanza, in forze. Da dove, perché loro? Solo dopo sono arrivati poliziotti e carabinieri.
    6) L’ospedale Fatebenefratelli. Di sabato le sale operatorie sono chiuse e le équipe chirurgiche fanno il weekend. Quel sabato invece erano state convocate all’ospedale per attività di “aggiornamento”. Quando i feriti arrivarono era pronta una struttura formidabile. Un caso?
    7) Il fotografo di Lungotevere. Si chiama Massimo Capodanno. Sono sue le foto che ritraggono mio figlio Jonathan in braccio ad un vigile ed a una vigilessa nel breve momento in cui mi accomodavo nel posto di dietro di una 127 due porte della municipale e loro me lo passavano. Siamo quasi un’ora dopo l’attentato, avevo portato Jonathan al Fatebenefratelli ma visto il sovraccarico dei medici dopo un po’ ho deciso di spostarci al Bambino Gesù. Quali altre foto ha scattato prima? Possono aiutare la ricostruzione della tragedia?
    8) Il lodo Moro. Grazie alle rivelazioni del presidente Cossiga finalmente sappiamo per certo ciò che abbiamo sempre sospettato: “In cambio di una ‘mano libera’ in Italia i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e l’immunità di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici fin tanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. Cioè esclusi gli ebrei. Dopo le leggi razziali ed il 16 ottobre, il primo tradimento del regno fascista, ecco come ci ha traditi la repubblica democratica. L’attentato del 9 ottobre dell’82 non infrangeva il patto, era uno scellerato “diritto” dei palestinesi. (Il lodo Moro a giudizio di Cossiga è ancora vigente, anche con gli Hezbollah in Libano: i caschi blu chiudono gli occhi, migliaia di missili vengono schierati contro Israele, ma il contingente italiano è salvo!)
    9) Le indagini. Sono state una semplice formalità. Su imbeccata israeliana i Greci hanno fermato uno dei terroristi, l’Italia ha tentennato sull’estradizione e i greci lo hanno portato e liberato in Libia. L’Italia, ad oggi, non ha mai richiesto l’estradizione. Poi, sembra una presa in giro, lo ha condannato all’ergastolo, uccel di bosco.

    Mettendo insieme tutti questi fatti arrivo ad una sola conclusione. Altissimi livelli politici (il “grande vecchio” degli anni di piombo?) o i servizi segreti deviati di piazza Fontana, Bologna ecc. hanno approvato una azione palestinese. Un attentato vetrina per Arafat, forse un modo traumatizzante di fermare l’escalation antiebraica in corso nel paese per l’Italia. Hanno tolto le forze dell’ordine intorno al Tempio, forse predisposto i soccorsi ospedalieri e dato luce verde ad una condizione: niente morti. I palestinesi hanno accettato e si sono attenuti: il lancio troppo basso di una bomba ha mandato letteralmente tutto all’aria. Stefano Michael ha pagato con la vita.

    David Pacifici

  4. Non credo ci sia stato un complotto o un patto con i palestinesi. Come ricordavo in Europa era più di un anno che attacavano obbietivi ebraici che fossero Sinagogje,come a Vienna, o ristoranti a Parigi ed altre città. Roma fu l’ultima di quella serie. Mi hanno chiesto (non uso fb) se avessi potuto colpiene qualcuno. Credo di si, avevo una bifilare con 14 colpi, almeno uno lo avrei preso o meglio giustizziato. Non me lo sono mai perdonato.

Rispondi a Alberto Terracina Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Condividi:

L'ultimo numero di Riflessi

In primo piano

Iscriviti alla newsletter