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Le parole e il silenzio

L’arrivo del nuovo anno chiama ognuno di noi a valutare i propri comportamenti, e a comprendere che la notorietà non può poggiare sulla maldicenza e l’uso distorto dei social 

Emanuele Luzzati, Rosh ha shanà

Mancano poche ore all’inizio di Rosh Hashanà, a cui seguirà il lungo periodo festivo che si concluderà con Simhà Torà. Sono giornate liete da trascorrere nelle nostre case, con gli amici e i parenti. Ma l’aspetto conviviale delle nostre festività non deve far dimenticare che queste ricorrenze sono anche momenti ed occasioni per dare avvio e portare a conclusione grandi processi di introspezione, di analisi e di valutazione dei nostri comportamenti; sono giornate in cui dobbiamo guardarci all’interno per migliorare noi stessi e per migliorare le relazioni con il prossimo.

Questi giorni (già a partire da Rosh Hodesh Elul) sono caratterizzati da un impegno al cambiamento e al rinnovamento, che i Maestri ci insegnano può avvenire solo agendo contemporaneamente su tre fronti: la tefillah (preghiera), la teshuvà (pentimento) e la tzedakà (beneficenza). Sono tre azioni che si realizzano e si esprimono con modalità diverse: alcune con le parole e alcune nel silenzio. A volte è necessario parlare, a volte invece è necessario stare zitti.

La nostra preghiera è essa stessa composta di parole ma anche di silenzi, dentro i quali le parole sono dette a filo di voce. E persino il potente suono dello shofar avviene nel silenzio.

Il silenzio non è infatti il vuoto, o il nulla; non è la mancanza di parole ma è la forma più sofisticata di ascolto. Ci viene infatti insegnato che le pagine della Torà sono composte non solo dalle parole scritte con l’inchiostro, ma anche dagli spazi bianchi che vi sono tra le lettere e che quello che apparentemente sembrerebbe il nulla, in realtà è uno spazio che cela un messaggio.

La tradizione ebraica molto ragiona sul rapporto tra la parola e il suo opposto, e molti insegnamenti sono inviti a saper usare con saggezza ed equilibrio il nostro linguaggio.

Chofetz Chaim (1838-1933)

Rabbi Israel Meir Hacohen Kagan, soprannominato Chafetz Chaim dal nome della sua principale opera, dedicò un’intera esistenza ad insegnare quali sono le enormi e drammatiche conseguenze di un uso sbagliato delle parole. La maldicenza (quella degli esploratori) è stata infatti la ragione per cui il popolo ebraico rimase nel deserto quaranta anni e sempre per colpa della maldicenza venne distrutto il Santuario di Gerusalemme ed ebbe inizio la dispersione del popolo ebraico. La maldicenza, in ebraico lashon harà’, non è solo la ‘lingua cattiva’ che diffama il prossimo con sospetti e illazioni, ma è anche il mettere in cattiva luce rivelando verità.

C’è un bellissimo midrash che ci invita ad un uso calibrato e attento delle parole: prima di nascere a ciascun individuo è assegnato un numero preciso di parole; quando ciascuno avrà utilizzato tutte le parole a disposizione, l’individuo non avrà più la capacità di esprimersi e quindi terminerà la sua esistenza. Ragione per la quale tutti dovremmo essere parsimoniosi nell’uso del linguaggio e non dovremmo sprecare le parole in futili, inutili e dannose discussioni.

E invece nell’era post moderna dei social network il silenzio non esiste più; chi ascolta od osserva da lontano è un perdente; se non si comunica, se non si parla il linguaggio social non si esiste e si è morti virtualmente.

Un fiume di parole così ogni giorno scorre portando in luce le opinioni più strampalate, ognuno si sente in diritto di parlare su tutto e di tutto. Quelle che prima dei social potevano essere polemiche e litigi che rimanevano in un contesto privato e riservato, ora esplodono pubblicamente con commenti, contro commenti e nuove polemiche, con tifosi e sostenitori da ambo i lati.

Si cerca la visibilità, si inseguono i like, si contano quanti sono i followers. E purtroppo in questo tritacarne cadono alcune volte anche le nostre istituzioni e i loro rappresentanti. Per la visibilità, per la notorietà, per un illusorio senso di grandezza e compiacimento personale, il linguaggio scivola in turpiloquio e le critiche diventano offese. Per tutte queste persone vale un bellissimo aforisma che ho letto recentemente: “Essere famosi su Facebook è come essere miliardari a Monopoli”.

Più saggiamente Rabbi Naftali Braunfield insegnava: “Le persone nobili parlano di idee, le persone mediocri parlano di cose; le persone basse parlano di altre persone…”. Ed è proprio quello che le persone fanno sui social.

Proprio in questi giorni ricordiamoci quindi il modo in cui il Signore si rivelò al profeta Elia: non nel vento, né nel terremoto, né nel fuoco, ma “Qôl demamâ daqqâ”, con una sottile voce di silenzio. Se vogliamo realmente aspirare alla sacralità dovremmo comportarci nello stesso modo.

Hag sameach a tutti, con l’augurio di ascoltare meno parole e più silenzi.

Una risposta

  1. Bellissimo e interessante articolo che condivido. ll slenzio , in determinate situazioni , è anche sinonimo di educazione, di rispetto e soprattutto di grande signorilità . L’ho seguita per anni e Le auguro nuove e altrettante sfide che,sono certa , vincerà con grandi soddisfazioni
    Grazie per gli anni che ci ha dedicato
    Shanà Tovà

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