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Il quinto figlio, quello che al seder è assente…

A Pesach siamo soliti ricordare i quattro figli che siedono con noi a tavola. Eppure, la tradizione ebraica sollecita la ricerca di un quinto figlio: di chi si tratta?

rav Alfredo Toaff

Tutti sanno che uno dei simbolismi principali del seder di Pesach ruota attorno al numero quattro. Le quattro domande d’apertura cantate dal più giovane, i quattro bicchieri di vino, e soprattutto i quattro figli, o meglio le quattro tipologie di ‘figlio’: l’assennato (il chakham), lo spregiudicato (il rasha‘), il semplice (il tam) e l’inesperto ([Hu] she-inò iodea‘ lesh’ol), secondo la classica traduzione italiana dell’Haggadà di rav Alfredo Toaff, ancora molto usata nelle celebrazioni dei sedarim delle comunità italiane.

Nell’introdurre tale tètrade, il testo usa la parola ke-neghed arba‘à banim, intendendo dire che la Torà deve ‘far fronte a’ ossia sfidare ed educare tipi diversi di figli/figlie, di individui come di generazioni ebraiche, ora più sagge ora meno, a seconda delle epoche e dei diversi contesti. Tuttavia, per quanto tale numero alluda a una totalità – che nel mondo antico rifletteva i quattro elementi di cui si comporrebbe il mondo (terra, acqua, aria e fuoco) e i quattro punti cardinali – non si tratta di una totalità chiusa. Per spezzarla basta aggiungere un’unità ed ecco che compare il cinque, non meno presente nella tradizione ebraica: nel chumash, i cinque libri della Torà, certamente, ma anche nell’Haggadà dove troviamo i cinque rabbini riuniti a celebrare la festa e a studiare in Bene Beraq; e poi nel quinto calice, quello del profeta Elia, enfatizzato nei riti ashkenaziti (meno in quelli italiano e sefardita); non ultimo, la figura del ‘quinto figlio’, che c’è proprio perché non c’è, in quanto è il figlio assente dal desco della celebrazione familiare.

il seder, nell’illustrazione di Lele Luzzati

Sulla figura del ‘quinto figlio’ hanno portato la nostra attenzione due importanti seppur diverse figure di maestri del giudaismo del secondo Novecento: rav Menachem Mendel Schneerson, ossia il settimo rebbe di Lubavitch, e lo scrittore-testimone della Shoah Elie Wiesel.

Per rav Schneerson, oltre ai quattro figli descritti durante il seder “vi è anche un quinto figlio, di gran lunga il più problematico degli altri, che l’Haggadà non menziona semplicemente perché alla sera del seder è assente…”.

Di chi si tratta? “È colui a cui tutto ciò che concerne la Torà e le mitzwot non interessa minimamente e che non riconosce neppure l’importanza dei miracoli celebrati con il seder” spiega il Rebbe. E ammonisce: ”Ma nessun figlio di Israele può essere dimenticato o lasciato alla deriva. Sta a noi compiere ogni sforzo possibile per salvare il bambino perduto e portarlo alla tavola del seder…”.

il Rebbe di Lubavitch

Nell’analisi che segue il Rebbe identifica questo ‘figlio perduto’ da ritrovare e portare a casa nell’ebreo totalmente assimilato, forse a causa dei suoi genitori più che per propria scelta. Pesach è anche una lezione contro l’assimilazione: se c’era una grande civiltà apprezzabile per cultura e tecnologia, quella era l’Egitto, al prezzo però della schiavitù e dell’alienazione dalla propria identità, dai valori ebraici, libertà in primis. Per il Rebbe, si tratta di pensare anche alle dieci tribù di Israele disperse (dieci è 5×2!) “per affrettare la vera e compiuta redenzione del nostro popolo, con la venuta di Mashiach”. Cercare, non dimenticare il ‘quinto figlio’ diviene allora una mitzwà aggiuntiva alle altre di questa chag cherutenu, della ‘festa della nostra libertà’. Molte famiglie compiono tale mitzwà invitando al seder ebrei che di solito non osservano altre mitzwot o amici non ebrei che apprezzano e intuiscono il valore universale di questa festa, memoria ancestrale e fondativa del sistema valoriale del giudaismo.

Elie Wiesel (1928-2016)

Come accennato, esiste poi il tema del quinto bicchiere di vino, il calice di Elia, che durante il seder si riempie nel momento in cui si apre la porta di casa per accogliere il profeta. Anche qui, il mondo ashkenazita dà molto rilievo a tale gesto: il quinto calice è un’evocazione dell’attesa messianica, in quanto Elia è tradizionalmente associato all’arrivo di Mashiach, colui che, dopo i “quattro calici della punizione” che Dio farà bere alle nazioni malvagie (che il midrash identifica con Egitto, Babilonia, Grecia e Roma), infine farà bere a Israele “i quattro calici della consolazione”. Il quinto calice destinato al profeta infatti non si beve; è come il vino escatologico che il Talmud riserva per i tempi messianici, in cui si manifesterà la giustizia divina. Il quinto calice dunque è un segno della redenzione futura, sebbene materializzi un’aspirazione dell’oggi, perché le ferite dell’ingiustizia sono storiche e sanguinano nel presente.

“Il quinto figlio”, di Elie Wiesel (Giuntina)

Non è un caso allora che Elie Wiesel abbia scritto uno dei suoi romanzi sulla Shoah, incentrato sul tema della giustizia, immaginando un figlio che vuole (deve) portare a compimento l’opera di un padre sopravvissuto a un aguzzino nazista e la cui ferita è tale da averlo chiuso in un totale mutismo, simbolo – il romanzo è del 1983, da noi tradotto cinque anni dopo da Giuntina – del blocco psicologico che impedì per anni ai sopravvissuti alla Shoah di parlarne, anche e soprattutto ai propri figli. Così il tema del quinto figlio che ‘non c’è’ al seder si sovrappone al figlio, anzi all’intera generazione, che ‘non c’è più’, assente per sempre, perché sterminata dall’odio antiebraico del nazi-fascismo. Propio contro quell’odio evochiamo a Pesach l’ingresso simbolico di Elia, il giustiziere, nel senso di colui che fa giustizia, sì che possa poi con il Mashiach arrivare la redenzione e la consolazione piena.

Può essere, come dice uno dei miei maestri, che l’origine della coppa di Elia sia ben diversa, risalga a una disputa talmudica tra rabbini e rimandi all’incertezza se, durante il seder, si debba bere vino quattro o cinque volte; ma anche qui, come per la giustizia, diciamo teqù ossia “venga il Tishbita e risolva i nostri dubbi”. Chag kasher we-sameach.

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