Il futuro europeo passa (anche) per Israele
Davide Assael, filosofo, evidenzia le tante contraddizioni che minano la credibilità delle proteste antisraeliane in Occidente, mentre il governo di Netanyahu è tentato da una lettura messianica del conflitto
Davide, dopo sei mesi di guerra a Gaza ci troviamo a registrare aspre forme di conflittualità anche da noi in Europa. Vorrei innanzitutto chiederti un tuo giudizio sulla guerra: il cessate il fuoco chiesto dall’ONU per il Ramadan appena concluso porterà alla tregua tanto attesa?
No, l’ONU non ha alcuna possibilità di imporre alcunché ad alcuno. Sia per limiti strutturali sempre più evidenti, sia perché ostaggio degli interessi nazionali in cui ognuno sostiene acriticamente chi fa parte del proprio blocco. La cosa è evidentissima, e non da oggi, nel caso di Israele, che, complice l’enorme blocco dei Paesi musulmani, ha dovuto subire più risoluzioni avverse di qualunque Paese al mondo, dovendo persino assistere allo scempio di vedere l’Afghanistan votare una risoluzione di condanna nei suoi confronti per il trattamento delle donne palestinesi nell’agosto scorso. Della serie: non c’è limite alla vergogna. Naturalmente, non possiamo nasconderci, come il veto USA scatti automatico a difesa dello Stato ebraico. In questo senso, seppur non è una cosa inedita, l’astensione a cui credo tu ti riferisca con la domanda, è un segnale inequivocabile dello stato delle relazioni fra Netanyahu e Biden, già tesissime prima del 7 ottobre. In ogni caso, come già dimostrato dall’approvazione del nuovo pacchetto di armi verso Israele, la solidità nell’alleanza non è in discussione.
Qualcuno potrebbe pensare che Israele ha solidi protettori negli USA…
Anche qui, bisogna precisare. La causa non è la presenza della lobby ebraica in patria, che certo ha un suo peso elettorale come tutte le lobbies, ma la necessità di mantenere dalla propria parte un Paese strategicamente vitale per gli interessi USA dell’area. Ancor più in un momento storico in cui gli Stati Uniti erano orientati verso l’Indo-Pacifico. Sono cose che Netanyahu sa benissimo, da politico navigato qual è. Proprio per questo sa di poter tirare la corda, che, comunque, prima o poi si spezza. Bisogna esserne consapevoli. Naturalmente, lo stato comatoso dell’ONU si palesa anche in altri casi. Si pensi solo ai veti cinesi a favore della Russia in questi due anni e più di conflitto ucraino. In questo spartito arcinoto c’è, però, una novità significativa: nel palazzo di vetro è penetrata un’ideologia terzomondista rappresentata dai Paesi appartenenti alla galassia definita del Sud globale, che ha utilizzato il canale umanitario per imporre il proprio revanscismo anti-occidentale. Un processo che, come dimostra anche il ricorso alla Corte di Giustizia Internazionale da parte del Sudafrica, potrebbe cambiare la natura delle istituzioni sovranazionali. Noi guardiamo la superficie, ma sotto di essa i processi di cambiamento sono molto profondi.
Fin dai primi giorni seguiti al 7 ottobre, si è manifestato un radicale movimento di protesta contro Israele. Possiamo descrivere ciò che anima questi giovani manifestanti?
Diciamo che, a mio giudizio, si possono riconoscere due tendenze. La prima è quella classica dell’antisionismo della sinistra radicale, in alcuni casi anche eversiva. Un antisionismo, per chi sa vedere un minimo, erede dell’antigiudaismo dei grandi sguardi universalistici occidentali, che hanno sempre visto con sospetto la volontà ebraica di mantenere le proprie caratteristiche identitarie. Un mondo oggi confluito nell’ideologia woke, che, se ha in sé un patrimonio di emancipazione da non disperdere (si pensi alle battaglie sui diritti LGBTQ+, alle nuove forme di femminismo «situato», alla riflessione sull’intersezionalità), dall’altro ribadisce un antico spartito culturale nella più assoluta inconsapevolezza. Siamo ancora allo stato di un moto emotivo spontaneo, piuttosto che di fronte ad ideologie sistematiche che hanno condotto una riflessione sui propri fondamenti. Così, io credo, si spiegano anche eccessi fastidiosi, come vediamo nella cancel culture. Tutta questa galassia, e siamo alla seconda tendenza che io riconosco in queste manifestazioni, interseca l’ideologia post e de-coloniale che si ribella all’imperialismo occidentale.
In uno dei tuoi ultimi articoli, descrivi queste proteste parlando di “gruppi premoderni”: che intendi?
Mi riferisco alla grande contraddizione su cui si fonda l’intersezione detta sopra. Nella sua battaglia anti-imperialista, questo mondo post-coloniale è sfociato in processi di rivendicazione identitaria, che rischiano di essere egemonizzati da gruppi tradizionalisti, oscurantisti, pre-moderni, di cui Hamas, trattata come una sorta di CNL (Comitato di liberazione nazionale, n.d.r.) palestinese, è ottimo rappresentante. Capisci che vedere il mondo woke iper-progressista marciare a fianco di questi tagliagole misogini, omofobi è cosa bizzarra. Aggiungo un’altra contraddizione: per quanto ne siano coscienti solo in parte, questi movimenti si iscrivono nella storia dei processi di emancipazione occidentali; se l’esito è Hamas c’è da che pensare. Sono dinamiche che riconosciamo nel mondo black american. Ecco, si può dire che, rispetto alla lotta alle ingiustizie condotta sulla base di un nuovo universalismo sensibile alle specificità di un Martin Luther King, stia prevalendo la linea rabbiosa e identitaria di un Malcom X.
Chi manifesta contro Israele ha di mira solo la guerra a Gaza? E protesta solo contro Israele?
Ovviamente si stratificano una serie di dati culturali. Sicuramente ci sarà anche un genuino sentimento di indignazione e solidarietà nei confronti dei gazawi, che vivono davvero una tragedia umanitaria, al di là dei numeri di Hamas, come ha ben messo in evidenza Olmert in un’intervista ad un quotidiano italiano. A questo, però, si somma un evidente antisemitismo che poggia i piedi nel tradizionale antigiudaismo occidentale: ellenistico, cristiano, illuminista. La critica ad Israele è non solo lecita, ma doverosa e si fa per prima cosa in patria. Una cosa, però, è la critica attraverso categorie politiche e militari, un’altra è riesumare stereotipi teologici come gli ebrei vendicatori o spietati. Davvero dà il volta stomaco sentire queste espressioni e fa capire quanto l’occidente sia ben lontano dall’aver fatto i conti con la cosiddetta questione ebraica, anche nel mondo post-Shoà. Anche qui, non è che chi ha le competenze per vedere non si fosse accorto del problema già da anni. C’è, poi, una nuova categoria che mi pare stia prendendo piede.
Quale?
Quella del popolo ebraico come popolo traumatizzato, che si difende in maniera cieca per paura di tornare ad Auschwitz, sempre più assurta a immagine mitica utile a rimuovere le cause storico-culturali che lo hanno prodotto. Si tratta di banali idiozie. Non solo perché basta guardare quei sondaggi che si fanno sull’ottimismo delle società per capire che gli israeliani non si sono mai iscritti in questa categoria. Vale il detto di Golda Meir: un ebreo non può permettersi di essere pessimista. Ma anche perché dal “Lech Lechà” (Genesi 12,1) in avanti, l’identità ebraica è sempre stata costruita sull’elaborazione del trauma. C’è un midrash che individua la prima prova a cui è stato sottoposto Abramo nel suo essere sfuggito da bambino alla fornace dove era destinato ad essere sacrificato al sovrano Nimrod. Attualizzando, si potrebbe dire, come è pur successo realmente in casi rarissimi per circostanze «miracolose», che Abramo è sfuggito alle camere a gas ed è riuscito a trasformare questa esperienza atroce in un progetto etico-politico fondato sul rispetto della dignità umana. Un progetto che oggi definiremmo democratico. Ci ricorda qualcosa, se si guarda al secolo scorso? Del resto Abramo è il primo patriarca, il primo in cui si riconoscono quegli elementi identitari che saranno di un intero popolo.
Resta un dato: che uno Stato palestinese ancora non esiste. Secondo te questa guerra porterà a un diverso assetto dell’area?
Questa è davvero la domanda da un milione di dollari. Diciamo che il clima non ispira all’ottimismo per nessuna soluzione e, sinceramente, mi pare che il terreno delle previsioni sia cosparso di propagande reciproche. Ognuno sfrutta la situazione per ribadire le proprie convinzioni storiche. In un conflitto, tra l’altro, già di per sé iper ideologizzato. La soluzione ai due Stati è difficilissima per i motivi che sappiamo, tra cui un territorio palestinese ridotto a coriandoli e la presenza di circa 700.000 coloni, per usare quest’espressione che non amo molto. Ma pare a qualcuno che esista il clima per uno Stato unico? Non scherziamo. Io sostengo la soluzione dei due Stati per ragioni che vanno assai oltre le contingenze attuali. Parto dal dilemma demografico che ci ha insegnato Sergio Della Pergola. Dei segnali di speranza ci sono. Anzitutto, il naufragio del piano di Hamas, chiaramente pensato in due tappe: imporre il tema palestinese sulla scena internazionale per mantenere in vita il proprio feudo a Gaza minacciato dagli Accordi di Abramo, e ce l’ha fatta; costringere i governi musulmani ad intervenire, e ha fallito. Secondo motivo di flebile ottimismo: tutti i Paesi firmatari hanno confermato gli Accordi di Abramo, così come è rimasta aperta la porta saudita.
Che previsioni possono farsi a breve?
Siamo in un quadro mediorientale inedito, che il governo israeliano, dominato dall’esigenza, anche patologica, di Netanyahu di restare al potere, a cui fa da contraltare la debolezza politica di Gantz, non ha saputo/voluto sfruttare. È stato un immane errore politico, un uso strumentale della legittima richiesta della società israeliana di non convivere a fianco a criminali efferati, che rischia di far naufragare l’obiettivo storico del riconoscimento di Israele nell’area. Purtroppo, il governo, con la componente messianica che ha una lettura redentiva della storia, non tratterà mai col mondo arabo, persino chiudendo la porta in faccia agli americani.
Dunque, dobbiamo propendere per l’ottimismo o per il suo contrario?
Se la società israeliana riuscirà finalmente a liberarsi di questo che io considero il Premier di gran lunga peggiore della storia del Paese, modello di queste nuove leadership personali e personalistiche sempre più maturate nelle democrazie moderne, allora c’è speranza che la crisi volga in opportunità. In caso contrario, questa resta una guerra senza scopo, risolta in un massacro di civili che ha già portato il Paese ad un isolamento internazionale senza precedenti. Gantz aveva fissato la linea rossa oltre la quale far scattare l’invasione di Rafah per il 4 marzo, inizio di Ramadan; siamo ancora in stand-by. Anche perché, una volta presa Rafah, che ne è di Gaza? Un piano definito ce l’hanno solo Ben-Gvir e Smotrich, che, però, non rappresentano se non una piccola parte di una società che è loro ostile alla massima potenza.