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Il dialogo è ciò che deve unire noi ebrei oggi

Riccardo Calimani ha realizzato un libro a quattro mani con rav Riccardo Di Segni. Riflessi lo ha intervistato

Riccardo, perché la necessità di un libro come questo?

Riccardo Calimani

Questo libro nasce dall’idea di mettere a confronto due opinioni: quella del rabbino capo di Roma, certo molto autorevole; e la mia, più personale. Così un giorno l’ho chiamato e gli ho offerto la possibilità di scriverlo. A lui l’idea è piaciuta, e così è nato il libro, che poi abbiamo proposto a Einaudi, che l’ha apprezzato e pubblicato.

Quando è stato scritto il libro?

Il libro è uscito da poche settimane, ed è stato scritto nel 2022, sulla base di una bozza di indice condivisa. Ci siamo scambiati le opinioni su domande prestabilite, e da lì siamo partiti, scambiandoci ogni volta i nostri punti di vista.

 Da quanto tempo vi conoscete tu e rav Di Segni?

Ci conosciamo da quasi sessant’anni, dai tempi della FGEI. Riccardo poi è stato anche a Venezia, come medico radiologo, lavorando per un breve periodo; in questi anni abbiamo avuto poi varie volte modo di parlarci, e penso di poter dire che la stima che proviamo l’uno per l’altro sia reciproca.

Il libro è segnato da una continua dialettica tra i due autori, in cui, è la mia impressione, la voce “religiosa” era meno propensa ad accogliere le regioni della voce “laica” che non il contrario. È un’impressione sbagliata?

Riccardo Calimani e rav Riccardo Di Segni si conoscono da oltre mezzo secolo

Ritengo la domanda mal posta. Mi spiego: è vero che la sua è una voce religiosa, ma non mi sentirei di dire che la mia è una voce laica. Perché il laico nel mondo cristiano è il contrario del prete, ma nell’ebraismo non ci sono preti. Io non ho una visione identica a quella di Riccardo Di Segni, ma considero che anche il mio punto di vista sia profondamente legato all’identità ebraica, identità che sono convinto possa coniugarsi anche in modo meno osservante.

Vediamo allora alcuni punti di questo dialogo. I temi che più sembrano dividervi sono: il rapporto con il fuori, ossia i matrimoni misti e il ghiur; e le relazioni interne, ossia il confronto tra laici e religiosi, o, come dici tu, tra osservanti e meno osservanti. Soprattutto sul primo, mi sembra che una mediazione tra voi non sia stata trovata.

Il mio punto di vista è questo: io credo che dopo la tragedia della Shoah il mondo ebraico non abbia fatto una riflessione su quello che è successo. Noi ebrei viviamo in un mondo disordinato, dove il principio di autorità non c’è. Noi non abbiamo un “papa ebreo”, cosa che io apprezzo, ma che talvolta porta anche sconcerto tra i nostri interlocutori. Quello che intendo è che in questa varietà di opinioni, che può portare a incomprensioni, mi piacerebbe che i rabbini fossero autorevoli, non autoritari. Io non discuto la loro autorevolezza, ma credo che alcuni concetti del mondo ebraico andrebbero resi da loro più comprensibili.

Per esempio?

Prendi noi ebrei italiani. Siamo una diaspora di 22.000 iscritti, di cui la metà romani, cioè una comunità molto debole, a fronte di quasi 60 milioni di non ebrei. Siamo una minoranza molto visibile, sovraesposti e sovrastimati, ma di questa condizione speciale dovremmo fare tesoro. Il dibattito che abbiamo realizzato con questo libro, e che ha trovato moltissimi apprezzamenti sul metodo seguito, dovrebbe farci riflettere di più su noi stessi, su come dovremmo entrare in relazione all’interno del nostro mondo.

Che conclusioni avete raggiunto?

Sarebbe troppo da parte mia proporre un metodo e offrire anche una conclusione. Mi limiterò perciò a dire questo: ritengo che il metodo sia importante. Quello che abbiamo seguito è stato: un confronto senza chiusure, senza artifizi, mi sembra utile a tutti, religiosi e meno.

Le divisioni che sussistono nel mondo ebraico italiano sono ben poca cosa rispetto a quelle oggi presenti in Israele. Secondo te quanto siamo influenzati noi ebrei della diaspora dalle vicende interne di Israele?

proteste in Israele

È del tutto evidente che un piccolo gruppo venga influenzato da quello che avviene in Israele. Io ritengo però che noi abbiamo un’idea sbagliata su Israele.

Perché?

Molti considerano Israele un paese europeo. In realtà oltre il 30% sono ebrei che vengono dal mondo arabo e mediorientale: egiziani, libici, marocchini, yemeniti, tunisini, ecc. Poi ci sono gli ebrei che vengono dalla Russia, oltre un milione; poi ci sono gli ebrei americani, in parte eredi di una mentalità da “cow boy”. Se mettiamo insieme tutte queste realtà, il risultato è che gli ebrei europei sono pochi in Israele. Quindi dobbiamo soppesare quello che ci viene da Israele.

Non è un modello per noi ebrei della diaspora?

un angolo dell’ex ghetto ebraico a Venezia

C’è chi lo considera un modello, e chi parla di modello ancora incompiuto. Il fatto, ad esempio, che in Israele ci sia solo un matrimonio religioso, ma non civile, ci fa capire che anche Israele vive con degli anacronismi, che non su tutto è in linea coi tempi. Io non ho certo il diritto di intromettermi nella vita israeliana, però registro il fatto che Israele è un paese importante, ma in cui la deriva di destra alla quale assitiamo da alcune settimane e il tentativo di cambiare le istituzioni m preoccupa molto.

Che giudizio dai di quel che sta avvenendo?

La mia impressione è che la riforma della giustizia voluta da Netanyahu, per fortuna ore sospesa, sia dettata più da motivi personale che da altro; e, ti confesso, è un’impressione a dir poco sgradevole.

Un’ultima domanda: come vede un ebreo veneziano di lunga esperienza del mondo l’ebraismo italiano oggi?

“Come foglie al vento” ricostruisce la vicenda familiare dei Calimani

La domanda fa rabbrividire i polsi. Per risponderti, ti faccio un breve cenno della storia della mia famiglia. I Calimani arrivarono con Carlo Magno prima nella valle del Reno, dove un mio avo scrisse il Sefer chassidim. A metà del ’300 furono espulsi e si trasferirono prima a Bassano e poi a Treviso; nel ‘500 arrivarono a Venezia, e vissero sempre nel ghetto. Io sono il primo della mia famiglia nato pochi metri fuori dal ghetto, dopo la fine della guerra, nel 1946. Da poco ho fatto una scoperta interessante: un soldatino, Mendel Hirsch, arrivò nel 1870 dalla Galizia austriaca, oggi Ucraina, a Venezia; si chiamava Brandes. Chiamò suo figlio Riccardo, il papà di mio nonno. Mio nonno, per conquistare la cittadinanza italiana, andò volontario in prima guerra mondiale. Suo figlio, Riccardo, fu deportato nella seconda guerra mondiale. Perché ti racconto questo? Perché, se guardo questo mio passato familiare, sento una grande responsabilità. Credo fermamente nella importanza di essere ebrei, perché questo permette di guardare il mondo in maniera disincantata e profonda; penso cioè che il monoteismo ebraico sia un modello importante. Mi rendo però ben conto che, proprio per questo, siamo molto divisi, e sarebbe  perciò bizzarro lanciare una parola d’ordine per tutti. Quello che penso invece è che sarebbe bello un dibattito più vivace nel mondo ebraico, che potesse svolgersi senza fanatismi e preconcetti, perché sono i pregiudizi quelli che avvelenano il confronto. Sono convinto che sia importante essere ebrei, ma anche annullare i preconcetti e capire quello che pensano i nostri interlocutori, soprattutto quando sono in disaccordo con me.

Una risposta

  1. Una intervista davvero positiva: domande ben ideate e ben poste, risposte chiare, sincere, profonde e stimolanti. È sempre bello per me apprendere come un Ebreo veda, senta ed approfondisca gli aspetti problematici dell’Ebraismo oggi nel mondo contemporaneo, avendo ben presente lo scopo finale da raggiungere al termine di una analisi storica, religiosa, sociale ed intima: constatare che la Fede ebraica rappresenta nel presente – come è avvenuto nel passato e come certo sarà nel futuro – lo strumento migliore e più efficace per fornire adeguate risposte religiose ed ideali alla propria coscienza che invoca luce, quiete e soddisfazione per l’anima ed alla Comunità che ha esigenza di fiducia nelle Istituzioni, di saggezza nelle guide di queste ultime, di ordine e di pace conseguenti ad una giusta sintesi tra i bisogni collettivi ed i princìpi da osservare per soddisfarli, nel rispetto di quanto insegna l’Ebraismo.
    Il libro in esame va certo acquisito e letto con attenzione.

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