Il 9 ottobre? Alla base c’è un intrico di patti riservati e segreti di Stato

Miguel Gotor, storico,ci aiuta a delineare lo scenario intarnazionale che portò all’attentato al Tempio maggiore del 9 ottobre 1982

Professor Gotor, a ottobre, come ogni anno, noi ebrei romani ricorderemo l’attentato al tempio maggiore, opera di terroristi palestinesi, che provocarono la morte di 1 bambino e il ferimento di circa 40 persone. Riflessi e Menorah intendono dare voce alle vittime. Vorrei cominciare con un’osservazione generale. Il nostro paese sembra infatti non avere mai fatto i conti davvero col passato. Lei si è interessato ai silenzi e alle omissioni degli ultimi 40 anni, in particolare in riferimento al sequestro Moro (“Il memoriale della Repubblica”, Einaudi, 2011). Quali sono a suo avviso le ragioni storiche e culturali di tante reticenze?

Miguel Gotor (1971), professore di storia moderna a Tor Vergata, senatore del Pd dal 2013 al 2017 e di Articolo 1 nel 2018

Non so se questo sia una specificità italiana. Francamente non credo che spetti alla ricerca storica questa attività “regolativa” implicita nell’espressione “fare i conti con il proprio passato” che ha un retrogusto di tipo giustizialista che non mi appartiene. Si tratta, infatti, di un lento processo culturale e civile che non avviene mai una volta per tutte ma si costruisce mediante un impegno quotidiano che deve vedere diversi soggetti sensibilizzati: la famiglia, la scuola, la società civile, le diverse agenzie formatrici dell’opinione pubblica – dalla carta stampata, alla televisione, a internet, al mondo sportivo e artistico – e che coinvolge anche, ma non solo, il senso comune storiografico e l’uso pubblico della storia. L’elaborazione di un trauma richiede sempre tempo e un doloroso lavoro di scavo che non consente reticenze né deresponsabilizzazioni. È bene che ciascuno faccia la sua parte senza evocare supplenze.

Nella vicenda dell’attentato del 1982 giocò anche il ruolo dell’Italia nelle relazioni internazionali. Nella stagione della strategia della tensione (tra gli anni ’70 e ’80), il nostro paese suo malgrado è stato interessato anche alle vicende legate al Medio Oriente. Chi studia quel periodo, più in generale, parla ormai di “lodo Moro”.

Non uso la formula “lodo Moro” che respingo per motivate ragioni scientifiche e invito, in ogni sede, a non farlo. Nei miei lavori parlo di “lodo di intelligence con i palestinesi”, le cui prime tracce documentarie finora conosciute, recuperate tra le carte del ministro Paolo Emilio Taviani, risalgono al dicembre 1972, quando Moro non era neppure al governo e presidente del Consiglio era Giulio Andreotti. Costui ha sempre smentito l’esistenza di questo lodo con i palestinesi, ma occorre notare che proprio nel suo archivio sono conservati documenti del suo segretario Gilberto Bernabei con i vertici dei nostri servizi del febbraio 1973 che ne parlano. Secondo l’agente dei servizi militari delegato agli affari mediorientali Armando Sportelli il lodo risalirebbe addirittura al 1971. Tra l’altro questo lodo segreto non costituì una specificità italiana perché riguardò altri Paesi, tra cui, ad esempio, la Spagna. Questo accordo di non belligeranza con i palestinesi nell’ottobre 1973, quando il presidente del Consiglio era Mariano Rumor e il ministro degli Esteri Aldo Moro, conobbe una più stringente formulazione che non assunse però mai la forma di una vera e propria stipula.

Ci può spiegare a cosa ci si riferisce?

Giulio Andreotti, più volte Presidente del Consiglio, incontra Yasser Arafat

La sostanza di questo lodo prevedeva, a tutela del supremo interesse nazionale, la salvaguardia del territorio italiano da attentati di matrice palestinese in cambio di un doppio salvacondotto: di tipo giudiziario, nel caso in cui fossero stati arrestati in Italia dei militanti della causa palestinese nell’atto di compiere attentati contro obiettivi israeliani, e di tipo commerciale, consentendo il transito nella penisola di armi provenienti dal nord Europa e la conservazione sul territorio nazionale di depositi di armi per conto dei palestinesi. Il tutto si è svolto sul filo teso nell’antro della ragion di Stato, un luogo, che è anche una dimensione, in cui Stato e anti-stato, poteri formali e poteri informali possono incontrarsi.

Chi fu preposto ad assicurare l’esecuzione di questo patto segreto?

Ad assicurare la prima funzione del lodo si prestarono selezionati vertici della magistratura, in deroga al principio costituzionalmente garantito dell’obbligatorietà dell’azione penale, all’applicazione della seconda funzione si adoperarono indifferentemente sia organizzazioni neo-fasciste sia le sigle del cosiddetto “Partito armato”, vale a dire le Brigate rosse e l’area di Autonomia operaia.

il Presidente della Repubblica Cossiga incontra il premier Ytzhak Shamir nel 1988 (fonte: Archivio Quirinale)

Per motivare questa dimensione “commerciale” degli accordi si sono mescolati, come spesso capita nella vita degli uomini, interessi di tipo economico e militare (le armi, naturalmente, servono a chi fa la lotta armata) con convincimenti ideologici e valoriali a favore della causa palestinese. I vertici dei servizi italiani, a cui spettava la gestione del lodo d’intelligence, erano, ovviamente, a conoscenza di queste attività di facilitazione, di custodia e di protezione che hanno consentito l’effettiva applicazione e il buon funzionamento degli accordi con i palestinesi, ma anche la possibilità di controllare la qualità e l’intensità degli armamenti introdotti e presenti sul territorio italiano. Ciò contribuisce a spiegare, per quale ragione essa sia stata coperta dal segreto di Stato fino al 2014.

Un’ultima domanda. Questo patto segreto di cui ci ha parlato può essere stato causa dell’attentato del 9 ottobre?

Rispetto all’attentato alla Sinagoga a cui fate riferimento, che provocò la morte del piccolo Stefano Gaj Taché, è bene ricordare che nel 2008 in un’intervista al giornale israeliano «Yediot Ahronot», il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga ammise che, nell’ambito del rispetto degli accordi d’intelligence con i palestinesi, la mattina dell’attentato le volanti della polizia italiana, che di solito presidiavano la Sinagoga nei giorni di festività, ricevettero l’ordine di allontanarsi, ma allora egli non rivestiva responsabilità di governo e non fu informato della cosa. Non so se ciò sia avvenuto per davvero, ma è un fatto che un ex presidente della Repubblica italiana lo ha pubblicamente sostenuto. Si tratta, in tutta evidenza, di un’affermazione molto grave giacché la vittima era anche lui un cittadino italiano che quelle forze dell’ordine avrebbero dovuto tutelare. Come vede siamo davanti a una storia tragica e non mi stupisce che si preferisca continuarla a ignorare, magari evocando “regolamenti di conti” a colpi di “memorie condivise” in nome della “verità storica” che in realtà servono solo a tenersene ben lontani. Scavare nelle ferite infette, infatti, è molto doloroso anche se è l’unica strada, così la medicina insegna, in grado di consentire la guarigione dei tessuti e la loro ricomposizione non solo del corpo fisico, ma anche di quello politico, culturale e sociale. Se la storia serve a qualcosa, serve a questo.

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