Il 7 ottobre abbiamo perso la guerra, ora Israele lotta per il suo futuro
Manuela Dviri racconta questi mesi di guerra e di proteste nel paese, tra la richiesta di liberazione degli ostaggi e l’aggravarsi del conflitto, come mostrano gli sviluppi delle ultime ore
Manuela Dviri, in questi sei mesi di guerra la sua è stata una voce importante per far comprendere lo stato d’animo di un paese ferito e tradito. Che aria si respira oggi in Israele?
Comincerei col dire che lo scorso fine settimana è probabilmente accaduto qualcosa di molto importante.
Cosa?
Sabato sera, qui a Tel Aviv, c’erano molte persone a manifestare per il rilascio degli ostaggi e contro il governo Netanyahu: è stata la protesta più partecipata da quando le manifestazioni sono riprese dopo il 7 ottobre. Del resto i numeri dei manifestanti sono in costante aumento. Il momento più emozionante è stato raggiunto quando, dopo un minuto di silenzio, si è levata la voce di una donna che ha urlato et Kullam! (Tutti! n.d.r.). L’intera folla ha risposto akshav! (Adesso! n.d.r.). Per me è stato come ascoltare una preghiera laica, è stato un momento bello e molto forte. A seguire siamo andati in piazza degli ostaggi, dove da mesi dimostrano le famiglie dei rapiti. Una delle madri ha fatto questo annuncio: “Questo è l’ultimo sabato che dimostreremo in questo luogo”. Il corteo infatti subito dopo si è diviso: in parte si è diretto a via Begin, all’ingresso del ministero della difesa, in parte verso Dizengoff, dove ha continuato a manifestare. Domenica pomeriggio molti autobus altrettante vetture private sono partiti per Gerusalemme, per manifestare intorno alla Knesset. Insomma, direi che da sabato scorso qualcosa nel paese è cambiato.
Ci aiuta a capire qual è il sentimento verso il governo e in particolare verso Netanyahu?
Ormai non solo le famiglie degli ostaggi, ma un po’ l’intero paese non accetta più il metodo di Netanyahu, il quale continua ad affermare che è lui ad avere l’ultima parola sia sulla conduzione della guerra che sulla negoziazione per la liberazione degli ostaggi. Venerdì sera il canale 12 ha parlato di suo figlio, Yair, ospite di un milionario americano a Miami. Siamo noi israeliani a pagare il conto salato della sua sicurezza, e questo mentre il paese è in guerra. Né i figli di Shimon Peres né quelli di Olmert hanno mai avuto bisogno di una sicurezza attorno a loro, così come l’altra figlia di Netanyahu non ne ha bisogno. Questo fatto che invece il figlio del primo ministro si trovi dall’altra parte dell’oceano mentre qui tutti i figli dei politici sono stati arruolati è una cosa che ha toccato l’intero paese. Per non parlare della situazione con gli Stati Uniti: è evidente ormai il conflitto personale di Biden nei confronti di Netanyahu. Trovo estremamente colpevole inimicarsi l’unica persona che c’è stata dall’inizio vicina: tutti quanti ricordiamo la portaerei americana a lungo ormeggiata lungo le coste israeliane, nonché la difesa che la Marina americana ha garantito a Israele contro gli attacchi degli Houti. Netanyahu invece si sta comportando in un modo infantile. Tutto ciò è insopportabile, soprattutto per le famiglie degli ostaggi. Sappiamo oggi che probabilmente sono meno di 100 quelli ancora in vita, tra cui molti malati, anziani, ragazze e ragazzi, e sappiamo bene cosa sta succedendo loro in questo momento, sia alle femmine che ai maschi.
A che punto sono le trattative per la liberazione degli ostaggi?
Purtroppo siamo consapevoli che le proteste contro il governo hanno una grande attenzione anche per il nostro nemico, Hamas. È certo che Hamas vede come gli israeliani stanno cercando di condizionare le scelte di Netanyahu, e questo potrebbe avere un effetto sul prolungamento dei negoziati. Ma per noi è fondamentale ribadire che Netanyahu non può essere l’unico a decidere una questione così rilevante per le sorti del paese, perché Israele non è ancora una dittatura e non lo sarà mai. Per il resto, la verità è che nessuno oggi può dire a che punto siano le trattative.
Questa generale perdita di fiducia nei confronti di Netanyahu si sta traducendo in un’alternativa politica chiara?
Poche settimane fa si sono svolte delle elezioni regionali qui in Israele. È apparso un nuovo partito, “Contratto nuovo”, che è riuscito ad eleggere dei propri rappresentanti in parecchie città. Si tratta di un partito probabilmente di centro, per il momento è la novità più importante. Per quel che riguarda le manifestazioni di piazza, invece, esse sono animate da una miriade di gruppi nati spontaneamente. Il movimento “brothers in arms” subito dopo il 7 ottobre è riuscito anche a sostituirsi al governo, ad esempio nell’organizzare gli aiuti agli sfollati e nel fornire cibo, vestiti e quanto era necessario. È un movimento molto composito, formato da tanti gruppi distinti. Non sappiamo ancora come tutto questo si tradurrà alle prossime elezioni, ma quel che è evidente è che il Likud sta andando sempre peggio nei sondaggi. Io mi sforzo di essere ottimista, e spero che all’ultimo momento nascerà un partito nuovo con persone nuove.
Gantz può essere un’alternativa valida Netanyahu?
Oggi Gantz è, per così dire, un parcheggio che custodisce tutti i voti del centrodestra che non si riconoscono più in Netanyahu. Io credo che meglio di lui sarebbe però il suo vice, Eisenkot, che proviene dallo stesso mondo militare, ma che è un leader più carismatico; ricordo inoltre che in questa guerra ha perso suo figlio. Eisenkot può essere una figura ideale sia per la destra che per il centro.
In questa situazione di grande incertezza, il paese comincia a riflettere sul dopo guerra?
Bisogna comprendere che Israele vive ancora nel trauma del 7 ottobre. Da voi in Europa è aprile, qui la realtà è che siamo ancora ad ottobre. Per comprendere il trauma che stiamo vivendo noi israeliani occorre avere consapevolezza di una cosa che invece credo sfugga a voi europei: il 7 ottobre Israele ha perso la sua guerra, per la prima volta ci siamo resi conto cosa significa perdere. È evidente ormai che il progetto di quella giornata era arrivare fino a Tel Aviv, e Hamas continua a sostenere che la prossima volta ci proveranno.
Come si prova a elaborare un simile trauma?
Il nostro trauma è così profondo che ha bisogno di tempo per essere superato. In tv non c’è un solo canale che non racconti ogni giorno la storia di uno degli ostaggi, o dell’eroismo di uno dei soldati del nostro esercito. Va ricordato che ci sono ancora migliaia di israeliani che probabilmente non torneranno a casa entro l’estate. Certo, mi si potrebbe rispondere che vivere in albergo è meglio che stare a Gaza, eppure anche questo pesa. Direi che in questo momento le nostre priorità sono: il ritorno a casa degli ostaggi, la tregua, e nuove elezioni. Certo, l’ideale sarebbe anche prendere Sinwar. Tutto il resto verrà dopo.
In campo palestinese si è registrata una novità: la formazione di un nuovo governo In Cisgiordania.
Speriamo che abbia la forza di gestire Gaza. In ogni caso, arrivare a una tregua a Gaza è fondamentale anche per stabilizzare il confine a nord. Perché il conflitto non è solo a Gaza, ma anche al confine nord, con il Libano.
Lei è da sempre impegnata nella sinistra israeliana. Un trauma come l’attacco del 7 ottobre e ora questa guerra l’ha portata riconsiderare la sua posizione?
Continuo a credere nelle mie convinzioni. I fatti dimostrano del resto che solo il raggiungimento di un accordo con i paesi arabi garantisce la sopravvivenza di Israele. Non voglio immaginare cosa sarebbe successo se Israele non avesse realizzato accordi con l’Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi. Inoltre ha resistito anche il contratto non scritto fra gli ebrei e la popolazione araba israeliana. Il 7 ottobre ci sono stati musulmani uccisi da Hamas, mentre altri hanno salvato cittadini israeliani. Gli arabi israeliani sono rimasti al nostro fianco e anche questo è un elemento positivo. Continuo a credere che la pace sia possibile.
L’emergenza umanitaria di fatto presente a Gaza è un tema che entra nel dibattito pubblico israeliano?
Posso dire soltanto quello che provo io, che conosco molti palestinesi, tra cui anche alcuni che vivono a Gaza. Ringrazio il cielo per continuare a provare empatia per l’altro, tuttavia sappiamo che quando una guerra è in corso le sue regole sono molto dure. Del resto, non mi pare che durante la seconda guerra mondiale francesi, inglesi e americani abbiano provato particolare pietà per le vittime tedesche mentre bombardavano le città della Germania. Bisogna comprendere che buona parte della responsabilità di quel che avviene a Gaza è della popolazione stessa, per aver cresciuto generazioni nell’odio assoluto nei nostri confronti, un odio così forte che nessuno di noi poteva immaginare, causa degli atti così efferati e spietati che si sono registrati il 7 ottobre. E poi vorrei dire anche un’altra cosa.
Prego.
Israele è un paese democratico, e quindi anche i suoi numeri sono numeri democratici. Intendo dire che ogni cifra relativa ai feriti e ai morti israeliani è accertata e dimostrata. Invece i numeri delle vittime di Gaza sono forniti da un’organizzazione terroristica che nessuno può controllare. In quella cifra non è possibile individuare quanti siano i morti civili, quanti siano i terroristi di Hamas, quanti siano le donne o i bambini. Allo stesso modo, per quel che riguarda gli aiuti, è vero che una parte della popolazione israeliana ha cercato di bloccare l’invio di camion a Gaza, ma è altrettanto chiaro che gli aiuti che entrano a Gaza vanno innanzitutto a vantaggio di Hamas e che come sempre la popolazione civile continua a essere sfruttata da Hamas. Per cui, ad essere sincera, non credo che in questo momento gli israeliani siano interessati a farsi carico delle sofferenze della popolazione di Gaza.
L’ultima tema è sull’Europa. Si susseguono nelle principali capitali europee manifestazioni a sostegno di Gaza, il cui slogan è una Palestina libera “dal fiume al mare”. Come si vive In Israele questo sentimento di ostilità?
Tradimento e abbandono sono le parole che mi vengono immediatamente alla mente. Soprattutto mi colpisce scoprire che l’antisemitismo non sia finito con la morte dei sei milioni di ebrei nella Shoah, ma si sia soltanto nascosto. Era in silenzio da qualche parte, e adesso è venuto fuori. Fa impressione la reazione registrata più in Italia che in altri paesi. Altrove le manifestazioni si possono comprendere perché lì la popolazione musulmana è molto numerosa, in Italia invece i numeri sono ancora piccoli, eppure l’ostilità è forte. Certo, a influenzare l’opinione pubblica c’è la propaganda di Hamas, preparata già prima dell’attacco. Lo si vede dal fatto che subito dopo il 7 ottobre già cominciava il tam tam secondo cui l’attacco era la conseguenza della politica israeliana. Sebbene non abbia sempre funzionato al meglio: l’aver ripreso in diretta le torture, le violenze, gli stupri e il rapimento di molti israeliani si è ritorto anche contro Hamas.
In Italia, sono già due le università che hanno deliberato di sospendere gli accordi di collaborazione con le università israeliane.
Sono colpita dal fatto che il personale docente, composto soprattutto da “baroni”, si sia fatto prendere la mano da ragazzi pieni di livore, che probabilmente non sanno neanche dove si trova Israele, né qual è il fiume e qual è il mare che dovrebbe essere liberato. Mi viene in mente la storia di Vittorio Arrigoni, con il quale ho discusso molte volte, che adorava Gaza e ne aveva una visione ideale; poi è accaduto che appena è andato a viverci è stato ucciso.
Si è fatta un’idea di cosa spinga tanti giovani a esprimersi per il boicottaggio?
Tempo fa mi è capitato di fare domande a un gruppo di studenti a Perugia. Mi ha colpito molto la solitudine che più o meno tutti mostravano, nonché il senso di spaesamento per l’incertezza in cui è immerso il loro futuro. Forse, questa adesione a un movimento per il boicottaggio e la distruzione di Israele è anche il bisogno di rispondere a questo vuoto e a questa incertezza; un po’ come in passato, quando tutti andavano in giro con la maglietta di Che Guevara senza sapere in molti casi neanche chi fosse. È incredibile che si chieda di boicottare le università israeliane e non si dica nulla degli accordi con la Cina con l’Iran e con molti altri paesi non democratici. Questi giovani non sanno di cosa parlano, non si rendono conto che Hamas è un’organizzazione terroristica basata su un fondamentalismo religioso, e che ha un’idea della società, ad esempio del rapporto con le donne, veramente pericoloso. È come se tutte queste persone non avessero desiderato altro che Israele, da paese democratico, giovane e ottimista quale siamo si trasformasse in un paese destinato a soffrire. Ebbene, questo oggi in effetti siamo: un paese che soffre.