Hamas è l’ostacolo al domani
Carlo Panella, nel suo ultimo libro (il 28 si presenta a Roma) indaga Hamas: la sua ideologia, la sua organizzazione, i suoi obiettivi. E ci spiega perché solo senza più Hamas a Gaza l’intera regione potrà avviare una nuova stagione di collaborazione
Carlo Panella, il tuo nuovo libro su Hamas nasce dai fatti del 7 ottobre e dalla guerra che ne è scaturita. Comincerei proprio da quel giorno: che cosa ci dice quello che è accaduto il 7 ottobre?
La mia lettura di quei fatti è che essi hanno fatto emergere in maniera non diversamente interpretabile la vera natura del conflitto Israelo-palestinese-. Per decenni in molti, compresa la dirigenza israeliana, ha pensato che il conflitto fosse una questione legata alla sovranità su un territorio. Invece il pogrom del 7 ottobre, le modalità con cui è stato realizzato, gli obiettivi di Hamas, hanno dimostrato in modo eclatante che non è questa la partita in gioco. Si sarebbe potuto infatti progettare un’azione militare contro obiettivi militari, invece le violenze e gli stupri, i rapimenti, compresi quelli di bambini inferiori a un anno di età, la violenza inaudita del 7 ottobre, dimostrano che la partita è un’altra. Del resto, ricordo anche che non si tratta di un inedito: già nel 1936 ci sono fonti che testimoniano violenze di questo tipo commesse contro la popolazione ebraica in Palestina. In altre parole, il 7 ottobre dimostra quanto fosse illusoria la posizione, ad esempio sostenuta da Paola Cariddi, secondo cui Hamas avesse ormai intrapreso un processo di laicizzazione e politicizzazione. Questa ipotesi è stata spazzata via il 7 ottobre, e oggi il vero leader di Hamas è Sinwar, mentre gli altri dirigenti in Qatar assumono delle vesti di semplici parassiti.
Che cos’è Hamas?
E un’organizzazione affiliata ai Fratelli musulmani, le sue origini risalgono al Gran Mufti di Gerusalemme. Per comprendere come nasce occorre ricordare che nel mondo arabo e palestinese, dopo la fine del califfato nel 1918, sono sorti 2 modelli di Stato. Il primo, che potremmo definire costituzionalista, rappresentato dalle famiglie regnanti dell’Arabia Saudita, che a lungo hanno governato anche in Iraq e in Giordania, è disponibile a un compromesso sia con Israele che con gli Stati occidentali, e favorisce un modello di Stato costituzionale. Tale orientamento è però minoritario rispetto alla corrente islamista e jihadista, cui storicamente sono appartenuti anche Nasser, in Egitto, e il partito Bath, in Siria e Iraq che escludono ogni compromesso e si rifanno al pregiudizio antiebraico “classico”, contenuto nel Corano.
Da molti anni Hamas ha il governo di Gaza, il che ci permette di comprendere che modello di Stato ha in mente: di che si tratta?
C’è da dire che Hamas è diversa dall’Isis, che era un’organizzazione terroristica verticale, la cui fortuna deriva dalla capacità di inserirsi nella guerra civile israeliana e irachena, riuscendo a ottenere il consenso popolare tra le tribù sunnite. al contrario, Hamas nasce come una propagazione dei Fratelli musulmani e costruisce il suo consenso dal basso, sfruttando uno di 5 precetti della religione islamica, al pari ad esempio del pellegrinaggio alla Mecca o del Ramadan, che impone l’auto tassazione a scopi benefici. Questa autotassazione è stata usata da Hamas effettivamente per costruire una capillare rete di solidarietà sociale, che le ha consentito di radicarsi per decenni nel tessuto sociale di Gaza, ma anche in Cisgiordania, come i Fratelli musulmani hanno fatto in Egitto. A questa rete, Hamas ha però aggiunto l’attività terroristica.
Da ultimo, questo controllo armato del territorio si è trasformato in un’attività che potremmo definire mafiosa, basata sul taglieggiamento della popolazione civile e la gestione degli ingenti contributi di denaro che avvengono dall’estero, e che sono serviti a molti dirigenti che si trovano in Qatar per arricchirsi, ma anche per costruire gli oltre 700 km di tunnel sotto Gaza, e prepararsi all’attacco di Israele. Direi dunque che Hamas è un’organizzazione con caratteri assistenziali ma anche mafiosi. Lasciami aggiungere però un’altra valutazione.
Quale?
La guerra a cui stiamo assistendo da oltre 7 mesi ha prodotto certo migliaia di vittime innocenti, tra cui innanzitutto i bambini palestinesi. Tuttavia, dobbiamo avere il coraggio di affermare che il popolo di Gaza non si è mai ribellato ad Hamas, ha votato per Hamas quando ha avuto la possibilità, e quindi io ritengo che sia in larga parte connivente con la situazione attuale.
Sono noti i forti legami tra Hamas e l’Iran. La morte del presidente della Repubblica islamica Raisi potrà avere effetti all’interno del paese e negli equilibri mediorientali?
In realtà la morte di Raisi non avrà nessuna conseguenza né sulla politica interna né su quella mediorientale dell’Iran. Il ruolo del presidente della Repubblica è infatti puramente amministrativo, mentre è noto che le leve della politica interna ed estera, nonché la gestione della magistratura e delle forze armate fanno tutti capo alla guida spirituale della rivoluzione, ossia l’ayatollah Khamenei. Né in Iran c’è una reale dialettica tra un’ala riformatrice e un’ala modernista, di fatto inesistente. la realtà è che il blocco conservatore è egemonico e che dunque il successore di Raisi che uscirà dalle prossime elezioni sarà un conservatore esattamente come lo è stato lui, che reprimerà altrettanto duramente la protesta nel paese. Semmai un effetto si potrà avere nel medio periodo.
Cosa intendi?
La scomparsa di Raisi avrà un forte impatto sulla successione a Khamenei. Raisi, infatti, era tra i candidati più accreditati alla successione, la sua morte apre ora un vuoto che potrà essere colmato o dal secondogenito di Khamenei oppure da altre figure oggi non individuabili, perché è un dato di fatto che l’Iran oggi sia priva di ayatollah di grande prestigio. L’unica certezza, dunque, è che sarà determinante la volontà dei pasdaran, che ormai controllano la politica e l’economia dell’intero paese.
Come giudichi la reazione militare israeliana all’attacco del 7 ottobre?
Le operazioni militari avviate e ancora in corso mi suscitano molti dubbi. Non ho capito, ad esempio, perché negli ultimi mesi siano state ritirate due delle tre divisioni che occupavano Gaza, e che hanno permesso ad Hamas di infiltrarsi di nuovo a Nord. Non ho compreso la strategia di attaccare per strati: prima a nord, poi al centro, infine ora sud, e non si è invece deciso di attaccare su più fronti contemporaneamente. E non capisco il disprezzo mostrato dal governo Netanyahu nei confronti della popolazione palestinese, che avrebbe meritato un piano di evacuazione più efficiente, per metterla al riparo dall’azione militare. In definitiva, la strategia militare di Netanyahu dimostra molti punti deboli. Se Netanyahu è stato capace di trasformare Israele in un paese ricco, il paese della startup Nation, va riconosciuto che sul piano della strategia militare la sua gestione è del tutto insufficiente.
Tuttavia, la notizia che ha preso le prime pagine dei giornali ieri è stata la richiesta del procuratore della Corte penale internazionale di incriminare Netanyahu e Gallant, da una parte, e Sinwar, Deif e Haniyeh, i tre capi di Hamas, dall’altra, per crimini contro l’umanità, per i fatti del 7 ottobre e della successiva reazione militare israeliana. Qual è il tuo giudizio a riguardo?
Giudico questa decisione un’infamia, tipica del modo di ragionare antisraeliano, che riceve simpatie in molte capitali europee. È una decisione assolutamente immotivata, che non tiene conto dell’enorme sforzo fatto in questi mesi da Israele per far arrivare cibo agli abitanti di Gaza, così come per farli spostare dalle zone delle operazioni militari. Ritengo dunque questa richiesta una follia e spero che non venga accolta dal presidente della Corte.
Questa guerra non rischia però di pregiudicare le relazioni internazionali di Israele?
Paradossalmente, i paesi arabi sono quelli che hanno tenuto più a bada l’opinione pubblica. Essi sperano che Israele elimini del tutto Hamas, così poi da realizzare finalmente una serie di accordi di libero commercio che partano dal Golfo e arrivino fino al Mediterraneo, al fine di avvantaggiarsi della high-tech e delle infrastrutture israeliane, nonché del mercato finanziario di Israele. Questi paesi oggi mostrano la loro solidarietà nei fatti: basta vedere la reazione all’attacco dell’Iran a Israele. Nel resto del mondo occidentale, al contrario, Israele paga un sostanziale isolamento, soprattutto per la propria incapacità di relazionarsi con le opinioni pubbliche europee e americane. Occorre dire che Israele è un vero disastro dal punto di vista mediatico. Inoltre, questa guerra è scoppiata in un momento politicamente delicato, con le prossime elezioni in Europa e in autunno negli Stati Uniti. Se non ci fossero state le prossime elezioni, ad esempio, Biden non avrebbe avuto la reazione così rigida nei confronti di Israele che stiamo registrando.
Come giudichi le proteste delle giovani generazioni, soprattutto negli atenei universitari?
Innanzitutto direi che queste proteste non sono assolutamente paragonabili a quelle del 1968, né per quantità, né per qualità. Nel 1968 ci fu un fenomeno radicale ed esteso, con decine di milioni di giovani che protestavano contro l’autoritarismo delle loro società, nonché, negli Stati Uniti, a favore delle minoranze americane contro la guerra in Vietnam. Oggi queste proteste, molto più limitate, hanno due cause.
Quali?
Da un lato sono figlie della demenziale cultura woke, ma anche dell’influenza che i paesi arabi stanno avendo degli atenei americani, se consideri che il Qatar da tempo finanzia corsi universitari che influenzano la percezione della realtà mediorientale da parte degli studenti, i quali crescono in una ignoranza totale. Inoltre considera che negli Stati Uniti soltanto la metà di chi protesta appartiene al corpo studentesco, mentre l’altra metà sono attivisti che provengono dall’esterno dei campus. In Europa invece la motivazione mi sembra un’altra. Se prendiamo l’Italia, ad esempio, ma anche la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, si può vedere come sia forte la presenza, tra chi protesta, di immigrati di seconda generazione, che manifestano il fallimento dell’integrazione. In tal caso, la protesta nasce da quel l’antisemitismo islamico di origine coranica di cui parlavo prima, e di cui tratto ampiamente nel mio libro. Queste proteste politicamente si alleano in Francia al movimento di Melanchon e in Italia a gruppi sparuti di estrema sinistra, che vedono stupidamente il mondo diviso in due categorie: chi ha ragione e chi ha torto.
Non pensi che in Occidente viviamo anche il rischio di un pregiudizio antislamico, oltre che antiebraico?
Sinceramente credo di no. Anzi, io sono contrario ha una visione per cui in Europa crescerebbe un sentimento antislamico, la cosiddetta islamofobia. Piuttosto, mi sembra che dobbiamo constatare una realtà: la stragrande maggioranza dei quasi 20 milioni di immigrati musulmani che oggi vivono in Europa stenta a integrarsi, e questo genera un problema e la reazione delle opinioni pubbliche occidentali. Aggiungo che una parte sempre maggiore pretenderebbe di applicare in Occidente le leggi della sharia, che, come è noto, contrasta con i principi di uguaglianza, libertà e di democrazia della nostra cultura.
Queste proteste montano anche perché tentano di impedire che Israele concluda le operazioni militari a Rafah. A tuo giudizio l’operazione andrebbe svolta?
Io credo che si debba entrare a Rafah, ma non attraverso i bombardamenti dall’alto, bensì con azioni di terra, anche se certo mi rendo conto che queste sarebbero sul piano umano per Israele molto più costose. Che a Rafah si debba entrare lo detta una ragione semplice: non è possibile pensare a Gaza nel prossimo futuro se non si eliminano quei 5.000 miliziani che il 7 ottobre hanno contribuito alle violenze a cui abbiamo assistito. Sarebbe come dire che nel 1945 gli alleati avrebbero dovuto consentire che tre divisioni bene armate di SS, pari a circa 50.000 uomini, di continuare a operare in Italia. E poiché, per tornare a Gaza, né l’ANP, né la Lega araba, né l’Onu hanno la capacità e la forza di cacciare Hamas, Io credo che questo compito spetti a Israele.
Secondo te la guerra è prossima alla fine?
Penso ci vorranno ancora alcuni mesi. Probabilmente Netanyahu spera di poter arrivare fino a novembre, e ottenere poi un maggior credito da un’eventuale vittoria di Trump. Anche se i suoi calcoli forse sono sbagliati, perché credo che, nel caso fosse eletto, Trump non terrebbe in Medio Oriente una linea molto diversa da quella che sta tenendo ora Biden. In ogni caso, il dissidio che sta emergendo sempre più chiaramente all’interno del governo, vedi le ultime dichiarazioni del ministro della Difesa Gallant, lasciano immaginare che dopo l’estate, probabilmente a settembre, Israele tornerà al voto.
È possibile, secondo te, immaginare, prima o poi, la nascita di uno Stato palestinese a fianco di quello ebraico?
Partiamo da un dato di fatto: io sono convinto che il popolo palestinese abbia diritto ad autodeterminarsi, senza subire l’occupazione delle truppe israeliane nel proprio territorio. Per ottenere tale risultato, tuttavia, occorre un passaggio preliminare. La formula dei due popoli per due Stati, infatti, oggi la giudico impraticabile, poco più di un miraggio. Occorre che prima la popolazione palestinese passi, per così dire, attraverso un periodo di decantazione, che serva a liberarla dalla ideologia jihadista. Non è possibile oggi immaginare uno Stato palestinese in cui agiscano migliaia di militanti che sostengono l’ideologia di Hamas. Ricordo che subito dopo il 7 ottobre, ad esempio, oltre il 70% della popolazione che vive in Cisgiordania si è dichiarata favorevole all’attacco. Pertanto io immagino un lungo periodo di decantazione, che permetta di costruire una road map utile ad eliminare ogni ideologia terroristica da Gaza e dalla Cisgiordania. Soltanto dopo questa fase si potrà pensare a uno Stato palestinese, cosa che auspico.