Il mondo fantasma: gli ebrei invisibili
Che ne è rimasto del mondo ebraico che viveva nell’est Europa alla vigilia della seconda guerra mondiale? Un libro ripercorre la storia delle terre più duramente colpite dalla shoah
Qualcosa è rimasto tra le pagine scure della storia dell’Europa orientale. Una presenza ebraica ridotta, spesso autocensurata, rimasta in una terra dove vivevano quasi dieci milioni di ebrei ed oggi ne rimangono poche migliaia.
Ciononostante questo spirito aleggia, si percepisce, torna ad animare quei campi anche se ancora per anni dopo la guerra l’antisemitismo è rimasto come una piaga incomprensibile e dove ancora adesso il sovranismo, il fascismo, il vecchio revanscismo rimette ancora in discussione quella radice comune che è stata il seme dell’Europa.
Gabriele Eschenazi, giornalista specializzato in politica e cultura israeliana e Gabriele Nissim, saggista, entrambi milanesi, lo raccontano nel libro edito per gli Oscar Storia Mondadori “EBREI INVISIBILI, i sopravvissuti dell’Europa orientale dal comunismo ad oggi”. Un documento ricco di riferimenti e documenti e per fortuna anche di carte geografiche di riferimento, di mappe in grado di localizzare termini spesso rimasti oscuri cartelli nella memoria collettiva, difficili da individuare. Bessarabia, Bucovina, Rutenia. Terre dell’Est dove ancora non si sono fatti i conti per intero con le responsabilità della Shoah e che proprio per questo restano nell’aria come fantasmi in cerca di pace.
Come ha invece fatto Safran Foer in “Ogni cosa è illuminata”. Come dimostra financo la guerra in Ucraina qui nulla è stato fino in fondo illuminato: troppe cose non sono state chiarite, rappacificate. Partendo dall’Ungheria e dalla Polonia, ogni paese è esaminato dalla fine del secondo conflitto mondiale ad oggi attraverso l’esperienza comune comunista e di contrapposizione all’Occidente in questi paesi dove rischia di scoppiare il terzo conflitto mondiale.
E se per l’ex Rdt una sorta di espiazione e di elaborazione del reato sembra compiuta (“nonostante la presenza di gruppi naziskin molto attivi i partiti di estrema destra stanno perdendo consensi” nella Germania dell’est come nel resto del paese, affermano gli autori) in altri paesi molto resta da fare. In tutta la Germania vi sono centri sulla Shoah e musei, si possono visitare in molte città i centri dove la Gestapo interrogava gli arrestati.
Per il resto il rapporto fra ebrei e comunismo nell’Europa centrorientale non ha resistito alle politiche antisemite di molti governi comunisti.
A partire quasi subito verso Israele furono gli ebrei di Bulgaria nonostante le radicate tradizioni filosemite del passato di Sofia. Il libro analizza l’antisemitismo delle masse, spesso tenute incolte e con un’impronta feudale che ha fatto comodo alla borghesia dell’est europeo. Sentimento che si sposa subito con la politica hitleriana negli anni Trenta e talvolta addirittura se ne serve anche quando politicamente non si sarebbe del tutto allineati, come accaduto in Ungheria. E sul dopoguerra, su una mancata riconciliazione in cui entra in campo anche la responsabilità dei dirigenti comunisti, anche di quelli ebrei, gli autori ricordano le parole di Primo Levi in merito alla mancata reazione dei tedeschi di fronte al genocidio: avrebbero potuto sapere molto di più circa quanto avveniva nei campi, osservano ma non lo facevano per non sentirsi colpevoli. “Non la chiamerei rimozione – afferma Levi – perché la rimozione è interna. Si rimuove una cosa che si conosce. Qui invece si chiudono i battenti prima di conoscerla”.
Il non credere alle atrocità, spiegano Eschenazi e Nissim , ”diventa un escamotage per non vedere e non assumersi delle responsabilità di fronte alla propria coscienza”. Viene analizzato il rapporto tormentato degli ebrei con la Polonia, con la disputa sulla memoria della sofferenza, sull’identità stessa di Auschwitz (nel campo 1 fu praticamente annientata l’elite politica e culturale polacca nel 1940 prima della destinazione ‘esclusiva’ a campo di sterminio quasi per intero per l’eliminazione degli ebrei) e sul volere equiparare l’Olocausto al programmato sterminio dei polacchi da parte dei tedeschi, non avvenuto solo per priorità temporali anche se il destino della Polonia nella follia del Fuhrer era di renderla schiava non di eradicarla completamente, non figurava il concetto di judenrein.
Ma su questo dolore comune che appare ancora impossibile da condividere si alimenta ancora oggi un reciproco risentimento. Tutto viene riassunto dal pensiero del filosofo Stanislaw Krajewski riportato dagli autori nel libro: “i polacchi si considerano per lunga tradizione la nazione che più ha sofferto in tutta la storia umana, sono il Cristo delle nazioni, che si è immolato per la salvezza di tutta l’umanità. Diventa allora impossibile accettare che altri abbiano sofferto di più, e ancora più difficile accettare che altri siano perseguitati proprio dai polacchi”. Per questo scatta quasi automatico il bisogno di impadronirsi o di condividere i luoghi simbolici del genocidio ebraico, ad iniziare da Auschwitz-Birkenau. Afferma Adam Michnik citato nel libro: “Il ricordo della Polonia per gli ebrei sopravvissuti che hanno lasciato il paese, ha scritto acutamente la Krall, è la memoria di un ‘rifiuto’”.
Un israeliano citato nel testo sintetizza lo stato d’animo reciproco: “gli ebrei non sono ancora venuti a capo della loro questione polacca. Di quella tedesca sì, ma era più facile. Si perdona più facilmente chi ci ha dato la morte di chi ci ha umiliato. La questione aperta con i polacchi è una questione di umiliazione e di sentimenti respinti. Niente genera maggiore aggressività e un rancore più tenace di un amore respinto, sprecato”.