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Fare teshuvà vale quanto fare una buona azione?

Rav Michael Ascoli ci aiuta a comprendere meglio il tempo dei iamim noraim, i gioni che da Rosh ha Shanà ci portano a Kippur

rav Michael Ascoli

Abbiamo tutti presente l’immagine della bilancia, con il piatto dei meriti da una parte e quello delle colpe dall’altra: se si aggiunge un sassolino dalla parte giusta ci si salva, se disgraziatamente si fa il contrario…Ne consegue che fra Rosh haShanà e Kippur ci impegniamo tutti a fare teshuvà e ad accrescere i nostri meriti compiendo opere buone. Potremmo chiederci, concettualmente, se sia possibile cavarsela compiendo opere buone, concentrandoci su quelle, senza bisogno di fare teshuvà. “Aritmeticamente” dovrebbe funzionare! Vediamo allora le fonti, così come ce le riporta Rambàm nelle “regole sulla teshuvà”. “Ogni persona guardi a se stessa come se fosse per metà meritevole e per metà colpevole, e così guardi al mondo intero come se fosse per metà meritevole e per metà colpevole: se commette una colpa condanna se stesso e il mondo intero, se osserva un precetto provoca la salvezza a se stessa e al mondo intero” (cap. 3, § 4). Per prima cosa occorre osservare che questa attenzione a non decretare la condanna per se stessi e per il mondo e anzi a consentirne la salvezza non ci è comandata solo nei dieci giorni penitenziali, bensì in ogni giorno dell’anno. Si tratta quindi di una prescrizione esistenziale che ci deve accompagnare costantemente: le nostre azioni hanno un peso, e che peso! Il fatto che nei dieci giorni penitenziali ci si impegni in modo particolare è una conseguenza del richiamo dello shofar che si ascolta a Rosh haShanà: quando si viene esplicitamente richiamati, c’è da aspettarsi che si faccia ancora maggiore attenzione. È poi importante fare attenzione alla responsabilità collettiva: il singolo non solo è chiamato a sistemare i propri conti; questi incidono inevitabilmente sul mondo intero. Si noti inoltre come in questo contesto la collettività cui si fa riferimento non è il popolo ebraico, è il mondo intero.

shofar suonato al Qotel

Ciò sottolinea quanto grande sia la responsabilità di ognuno di noi nei confronti dell’umanità tutta. A far saltare l’aritmetica, è l’affermazione per la quale “la misurazione del peso [dei meriti e delle colpe] non è secondo il numero dei meriti e delle colpe, quanto secondo la grandezza di questi: ci può essere un merito che equilibra molte colpe…e ci può essere una colpa che equilibra tanti meriti…e la misurazione avviene secondo il Signore, in quanto il Signore sa come eseguirla” (cap. 3, § 2). Diversamente da meriti e colpe che si possono aggiungere, la teshuvà ha la capacità di espiare, ossia di annullare il peccato. Attraverso la teshuvà[1] avviene una trasformazione della persona, in virtù della quale “perfino chi è stato malvagio per tutta la vita e ha fatto teshuvà alla fine, la sua malvagità non viene ricordata” (cap. 1, § 3). Rambàm considera diversi livelli di teshuvà, e definisce come “teshuvà completa” quella in cui la persona si ritrova in circostanze del tutto simili a quelle in cui in passato ha peccato e con invariate capacità fisiche e mentali di compiere la trasgressione, eppure sceglie stavolta di non peccare (v. cap. 2, § 1). Chi fa teshuvà deve “abbandonare la propria colpa, allontanarla dalla propria mente con piena determinazione a non commetterla mai più…e pentirsi del proprio passato” (cap. 2, § 2). La persona che fa teshuvà deve essere disposta a sforzi anche molto grandi, ed è normale che “implori il Signore con pianti e suppliche” (cap. 2, § 4).

il monumento a Maimonide, vissuto nel XII secolo

Questa descrizione così decisa della teshuvà ci suggerisce una possibile risposta al quesito iniziale: come abbiamo visto, infatti, il valore delle nostre azioni meritevoli o delle nostre colpe è basato su parametri che vanno oltre l’azione in sé. Ne consegue che lo stesso merito o la stessa colpa possono pesare diversamente per persone diverse. E chi ha fatto teshuvà è sostanzialmente diverso da quella che era prima (ciò è sottolineato da una norma alla quale si ricorre in casi estremi: il cambio del proprio nome, a simboleggiare che non si è più gli stessi di prima). Quindi anche le azioni buone o meno che farà da ora in poi assumeranno un valore differente. La teshuvà, dunque, incide non solo per il fatto che “toglie sassolini dal piatto sbagliato” ma cambia anche il “peso specifico” di quelli che si aggiungeranno.

[1] Notiamo per inciso che, secondo Rambàm, la teshuvà di per sé non è tecnicamente una mitzwà. La mitzwà è invece la confessione del peccato che formalizza con un atto concreto, di parola, il compimento del processo di teshuvà.

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