Dobbiamo tornare a essere un faro per il mondo
Daniela Abravanel, esperta di cabala e filosofia, racconta a Riflessi la sua vita in Libia e in kibbutz, il suo modo di vivere l’ebraismo e cosa ha imparato dai suoi tanti maestri
Daniela, cominciamo da te. Mi dici qualcosa sulla tua vita in Libia e l’arrivo in Italia?
Sono arrivata in Italia nel 1967 con l’ondata di ebrei profughi dalla Libia. Il trasferimento nella “fredda e grigia” Milano non fu solo un trauma “geo-climatico”, ma personale, causato dall’essere stata obbligata a lasciare tante cose che amavo. Gli animali per esempio: il mio pony, il mio cane. E poi il mare di Tripoli che era stato il mio costante e leale amico di infanzia. E poi il deserto dove con il mio papà periodicamente mi inoltravo a cavallo, e mi sentivo una eletta a potere fare (accompagnata da mio papà e dal nostro “scudiero” badawi) qualche chilometro di incursione in direzione della magica terra del Sahara. La mia famiglia era giunta in Libia, in gran parte, dalla Spagna (e in seguito dagli altri paesi dai quali erano fuggiti in seguito all’Inquisizione). Ma altri rami della famiglia vivevano lì da molto più tempo: come pochi sanno gli ebrei erano presenti in Libia già prima dell’invasione araba (anzi alcuni storici affermano che gli stessi libici musulmani erano discendenti di ebrei costretti a convertirsi all’Islàm con l’arrivo degli Arabi, cosi come era successo alla Mecca). Continuo a provare ancor oggi nostalgia della Libia non solo perché vi ho vissuto la mia infanzia, ma perché nel mio inconscio certamente persiste la memoria di tantissime generazioni che erano state parte integrale del tessuto sociale e culturale oltre che dell’ecosistema geografico. Non mi sono mai identificata con la versione di ‘italiana prima che ebrea’ che passava nella nostra famiglia alquanto assimilata, che mi aveva appunto messa a studiare dalle suore forse anche per farmi conoscere perfettamente la madre-lingua.
Dalle suore italiane alla scuola ebraica…come è avvenuto questo balzo?
Sì, anche il mio arrivo alla scuola ebraica mi fece porre alcune domande su che cosa fosse veramente quell’ebraismo a causa del quale eravamo stati cacciati dalla Libia. Da un lato la Scuola Sally Mayer aveva persone di altissimo spessore tra i suoi insegnanti. Come il professor Foa, la professoressa Sacerdoti, e soprattutto la professoressa Diena. Purtroppo però la maggior parte degli studenti avevano un atteggiamento un po’ indifferente e snob nei confronti dei maestri, soprattutto quelli di filosofia e di ebraismo (nessuno ascoltava veramente le lezioni di Rav Lazar). Era come se i miei compagni fossero interessati maggiormente a seguire le mode e i genitori nella scalata sociale e non gli avi nella ricerca spirituale e dei valori della vita. Da questo punto di vista la ricordo la scuola come un ambiente un po’ spento a livello intellettuale spirituale, tanto da non essere neppure riuscita a ispirarmi il desiderio di conoscere la Torah o Israele. Però in questo “mare piatto” ci furono due persone di cui serbo nel cuore un ricordo ancor oggi calorosissimo. Primo fra tutti il Rav Kopciowski z”l, che era un Maestro in ogni senso: umano, spirituale, intellettuale. Quando mi incrociava nei corridoi della scuola, si inchinava profondamente (imbarazzandomi non poco). Poi pronunciava alcune parole che avevano a che fare con l’onore dovuto “a beit David“, la Casa di Davide da cui secondo molti gli Abravanel discendono. Con i suoi inchini credo che il Rav Kopciowski cercasse di restituirmi l’autostima e il sorriso che gli eventi storici mi avevano rubato. E anche mettendo in me il seme della consapevolezza di una certa missione spirituale sia verso i goym che verso gli ebrei. Ma il seme sbocciò potentemente parecchi anni dopo, quando la mia teshuvah fu ispirata dall’incontro con la spiritualità di altre religioni, dallo sciamanesimo allo yoga.
E il secondo incontro di cui mi parlavi?
L’insegnante che influì maggiormente su di me fu la professoressa Diena che mi aiutò a comprendere il ruolo e l’importanza della “giustizia sociale” nella tradizione ebraica, facendomi leggere Buber, Landauer, Franz Rosenzweig e spingendomi a fare delle domande sui valori reali dell’esistenza -che sembravano sfuggire a una famiglia di uomini d’affari nei quali mi era stato dato di nascere. Poco a poco mi resi conto che la maggior parte di questo popolo di eletti pareva più interessata ai Vitelli d’oro che a D-o, alla pace, alla giustizia e a tutti i valori dei profeti biblici. Fu la professoressa Diena che mi fece comprendere l’importanza dell’istituzione del kibbutz in Israele, l’espressione più bella e umana del socialismo, di cui feci diretta esperienza dopo la mia aliyah, in un anno di fruttuosa collaborazione con Mario Levi nel Kibbutz Sde Eliahu.
Dunque Il Kibbutz ebbe un ruolo importante nella tua vita. Puoi parlarci della tua relazione col kibbutz?
2 risposte
Intervista molto interessante!
Concordo appieno su quanto sosteneva il Rambam, cioè che per aiutare una persona sia fondamentale elevare il suo stato psicologico attraverso musica, oli essenziali ed altri rimedi che aiutino a “riallineare” il corpo e lo spirito. E concordo anche con Daniela riguardo all’importanza dell’alimentazione e dell’esercizio fisico in parallelo al Tikun haMidot, alla Tefillah, alla Tzedaqah ed alle Mitzvot per integrare corpo ed anima, così come il versetto di Shemot 24,7 (“Naassè veNishmà”) ci insegna…
Molti spunti interessanti nell’intervista anche diversi da quelli che sto sentendo in queste sere nell’evento con molte testimonianze di ebrei libici organizzato a Roma da David Gerbi