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Faccio teatro in giudaico-romanesco per ridere e per riflettere

Alberto Pavoncello, insegnante, attore e regista teatrale, racconta a Riflessi tanti anni di successi

Caro “O Professore”, Alberto Pavoncello, all’inizio sei stato un apprezzato insegnante di matematica, fino a che poi è emersa la tua anima artistica. Come è nata l’idea di iniziare a fare teatro per la salvaguardia del giudaico-romanesco?

Le mie due anime coabitavano perfettamente, facevo contemporaneamente ricerca matematica e laboratori teatrali. Tutto nasce a scuola negli anni ’80, quando alcuni miei studenti mi proposero di inscenare “un’opera teatrale” in giudaico romanesco, io li aiutai: così nacque “Biancarella”. Successivamente, ricevetti da Angela Polacco, Mirella Calò e Giordana Sermoneta l’invito a partecipare ad una loro commedia che stavano mettendo in scena e cominciammo a lavorare su: “Il popolo eletto, ma non lo dite a D-o” ed io dovevo svolgere una piccola parte nel ruolo di un goy semplicione. Era la storia di dieci ebrei che rappresentavano dieci modi diversi di essere ebrei che, a causa di un guasto al sistema d’allarme, si sono ritrovati a passare due giorni dentro al Tempio. All’interno si svolgono tutti i dialoghi, le discussioni e le litigate sull’identità ebraica ed il modo di essere ebrei. A causa di un litigio tra gli attori, uno dei protagonisti principali abbandonò il progetto e mise temporaneamente in crisi la Compagnia, così io mi proposi di sostituirlo e così assunsi il ruolo di uno dei dieci e così diventai anche io un protagonista e contribuii al successo dell’opera.

Quali furono i lavori teatrali successivi che ricordi con maggiore intensità?

Dopo il successo di “Pure io riderio…..”, nel 1984, scrivemmo il testo di “Nessuno l’avria da prova’”, un testo molto importante, che raccontava la storia di una famiglia ebraica che durante il 16 ottobre fu costretta a nascondersi in un convento. Cercammo di farlo senza retorica e non doveva solo far ridere dato l’argomento; rispetto alla precedente commedia il successo non fu lo stesso, ma piacque molto all’esterno della nostra Comunità. In quel periodo lavorammo sotto la regia di Giacomo Piperno e fu particolarmente difficile perché essendo lui un professionista pretendeva molto da noi. Mi calai nel ruolo del protagonista e mi fu poi difficile lasciarlo, mi ero identificato molto in lui e mi diede molta sofferenza interiore.

Quanto è importante conservare l’uso del giudaico-romanesco?

Molto, se penso che per esempio “fa resciudde”, tra i suoi mille usi, potrebbe aver salvato la vita a qualche ebreo durante l’occupazione nazista di Roma. Non si può perdere una lingua che ha un vocabolario ricchissimo di parole che nascono dall’ ebraico.

Secondo te le nuove generazioni continuano ad usarlo come i loro nonni?

Direi di no, purtroppo l’uso è sempre più limitato ed il numero delle parole usate è sempre minore. Tutto nasce quando gli ebrei hanno venduto le loro case nel vecchio ghetto ed hanno acquistato a Monteverde e poi a Viale Marconi. Il rapporto tra chi è uscito dalla Piazza e chi è rimasto è diventato conflittuale e chi è uscito ha cominciato a non usare più quella terminologia. Successivamente c’è stato un ritorno al giudaico-romanesco, tutti hanno ricominciato ad apprezzarlo ed usarlo, ripetendo le battute delle nostre commedie.

La salvaguardia del giudaico-romanesco era l’unico scopo del tuo lavoro?

La verità è che l’ho considerato sempre uno strumento per affrontare tematiche che coinvolgessero tutti e mi permettesse di meglio arrivare nell’intimo di ognuno. Volevo far ragionare lo spettatore e portarlo a teatro. I temi, ancora attuali, da me affrontati sono stati l’omosessualità, il bullismo, la violenza sui social, i matrimoni misti, l’Alyà e gli anziani. Ricordo volentieri anche il periodo in cui organizzavo delle brevi rappresentazioni che introducevano un tema e poi si apriva un dibattito con esperti del settore e rabbini che salivano sul palco. Ebbe molto successo anche quel tipo di format.

C’è un momento particolarmente bello che vuoi ricordare?

Alberto Pavoncello riceve il Premio Fiuggi nel 2018

Ricordo due riconoscimenti che mi hanno fatto molto piacere: quello del Consiglio della Comunità di Roma, per il mio impegno a mantenere vivo il dialetto giudaico romanesco, nel 2018, ed il Premio Fiuggi per lo spettacolo ricevuto lo stesso anno sempre per il “meritorio lavoro nel recupero e valorizzazione del Giudaico-romanesco”. Per quest’ultimo ricordo una grande emozione perché venivo premiato insieme a Gigi Proietti, Luca Verdone, fratello di Carlo, Manuela Kustermann ed i Direttori artistici di alcuni teatri importanti come il Vascello o il Vittoria. In confronto a loro ero un vero dilettante ma con qualche battuta ed una storiella sul rapporto tra padre e figlio, conquistai sia la platea che gli altri premiati. Sono state due grandi soddisfazioni. Voglio anche ricordare, però, una studentessa cattolica dell’università de L’Aquila che mi chiese aiuto per una tesi sul dialetto giudaico-romanesco per la conclusione della sua triennale che ebbe tanto successo ed alla quale fu chiesto, al termine della magistrale, di riprendere ed approfondire il tema. In conclusione fu un grande successo, prese 110 e lode e le fu pubblicata la tesi.

C’è qualcosa di cui sei particolarmente orgoglioso?

Sì, avevo creato un gemellaggio tra la scuola ebraica e la scuola statale dove io insegnavo e nel 2002, prima che iniziassero i viaggi del Comune di Roma e poi della Regione, con i proventi di uno spettacolo, guidati da Shlomo Venezia z.l. accompagnammo alcuni rappresentanti delle due scuole gemellate a visitare i campi di Auschwitz-Birkenau.

Questo ultimo anno è stato funestato dalla pandemia dovuta al Covid-19 ed i teatri sono stati chiusi. L’emergenza sanitaria ha bloccato anche il tuo lavoro?

Il lockdown ci ha bloccato la presentazione di un’opera ormai pronta. Avevo già prenotato il teatro per sette repliche ed ho dovuto annullare tutto. Adesso aspettiamo che si torni alla normalità senza mascherina e distanziamento e che i teatri possano riaprire con tutti i posti a sedere previsti. Voglio ricordare che la nostra attività ha come fine ultimo anche il reperimento di fondi per fare zedakà e quindi, per coprire i costi fissi ed avere somme per fare beneficienza, abbiamo bisogno di riempire il teatro.

Hai potuto scrivere durante il lockdown?

No, non ho avuto l’ispirazione. A me basta poco, quando mi viene un’idea, ci ragiono, rifletto molto, e quando prendo il computer, lavoro intensamente per alcuni giorni e scrivo direttamente tutto il copione, pensando già alle scenografie, alle luci e quant’altro necessario per il buon esito della messa in scena.

Puoi anticiparci il tema della prossima commedia che, speriamo, possa uscire nel prossimo autunno?

Certo. Il tema dello spettacolo sarà la famiglia e tutto girerà intorno ad una truffa nei confronti di un anziano; ci saranno molti colpi di scena e la partecipazione di Alberto Omopiccolo è garanzia di divertimento per tutti.

Grazie Professore ed arrivederci sul palco!

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