Fra l’Internazionale e i Pirkè Avot, ossia: la conta dell’Omer e il Primo Maggio

Miriam Camerini accompagna i lettori di Riflessi nel periodo dell’Omer, che ci porterà da Pesach a Shavuot. Oggi troviamo qualche spunto sui capitoli letti la scorsa settimana

Qui e sotto: alcune edizioni a stampa dei Pirkè Avot

Lo scorso shabbat nelle case ebraiche si è iniziato a leggere – per tradizione: non è un precetto, ma una bella usanza – i Pirké Avot, ossia “capitoli dei padri”, l’unico trattato della Mishnà di argomento non prettamente legale ma piuttosto “etico”, di ispirazione quasi filosofica (se mai si può utilizzare la parola di Atene per la letteratura rabbinica, che viene da Gerusalemme e da Babilonia). I capitoli sono 6 in tutto, ognuno contiene una decina abbondonante (in quantità variabili) di paragrafi, in ebraico mishnaiot, ossia il plurale di mishnà, che viene così a indicare tanto l’opera completa quanto la sua più piccola unità. Si tratta di fatto quasi di “aforismi”, frasi che a una prima lettura non starebbero male ripiegate in quei “biscotti della fortuna” che si ricevono lasciando un ristorante asiatico, per non dire nei Baci Perugina, il che sembra un po’ un insulto, ma non lo è e spero di mostrarvi perché.

Ho pensato di srotolare metaforicamente assieme a voi quei “bigliettini”, uno dopo l’altro, uno shabbat alla volta, per accompagnarci nelle 7 settimane che percorriamo da Pesach a Shavuot, festa della mietitura del grano e del dono della Torah al Sinai, contando l’omer, ossia la misura di orzo che doveva essere portata al Tempio di Gerusalemme per contare i 49 giorni tra la liberazione dalla schiavitù e la ricezione volontaria di un nuovo giogo: una legge che libera vincolando e costringendo, sì, ma obbligandoci – prima di tutto – alla sua interpretazione.

l’omer è una unità di misura che si riferisce a una quantità di cereali prestabilita

Oggi leggiamo dunque – a sprazzi – il primo dei sei capitoli.

La seconda parte della prima mishnà recita:

Essi (i Maestri del Sinedrio) dissero 3 cose:

  • Siate ponderati nel giudizio
  • Erigetevi studenti in abbondanza
  • Fate un recinto per la Torah

Ho sempre amato questa idea di essere ponderati, quasi pesanti, cioè lenti nel giudicare. Giudicare lentamente mi pare una delle cose più difficili in assoluto, abituati come siamo a farci un’opinione e soprattutto a esprimerla prima ancora di rendercene conto. Il fatto che questo venga assieme alla raccomandazione di farsi una siepe per proteggere la nostra osservanza, ossia osservare dei precetti di cautela, per non incorrere nelle trasgressioni vere e proprie, ma allo stesso tempo evitando di aggiungere divieti e obblighi, il che – come sappiamo – è proibito dalla Torah stessa, mi pare una bella sfida. Reclutare studenti per quest’opera mi pare al tempo stesso temerario e necessario.

La IV mishnà raccomanda che ognuno faccia della propria casa un luogo di consiglio di saggi e sapienti, che si attacchi alla polvere dei loro piedi e che si disseti delle loro parole: mi piace questa immagine della polvere dei piedi che conduce alla sete di parole.

La V mishnà suggerisce di non parlare molto con le donne, per non incorrere nel rischio di tralasciare lo studio della Torah e il minimo che posso fare è tralasciarla a mia volta e ricordare che la ishà – donna – di cui parla la Mishnà, qui come altrove, è oggi riconosciuta da rabbini e pensatori come una categoria sociale e umana che non esiste più, un soggetto (o meglio oggetto) legale superato dalla Storia e dall’evoluzione della specie umana: la ishà di oggi non è più analfabeta e ignorante, ma pari all’uomo e istruita almeno quant’esso, e di conseguenza non si applicano ad essa le restrizioni e le prescrizioni nella Mishnà espresse per quella nostra matriarca primordiale. Detto tutto questo, essere consapevoli di che cosa significa parlare con un esponente dell’altro sesso è certo un consiglio apprezzabile, se adattato all’oggi e al sempre.

La VI mishnà è in compenso forse la mia preferita in questo capitolo: dice di “farsi” un maestro / rabbino, acquistarsi un amico e giudicare ogni persona per il verso giusto. Farsi un maestro non è facile, perché bisogna cercarlo, trovarlo, riconoscerlo come tale e poi tenerselo, senza sospendere mai completamente il giudizio, bensì mantenendo un pensiero critico e indipendente pur nella fiducia e nella dedizione. Il crinale tra fanatismo e scetticismo, tra dubbio e adesione incondizionata, fra carisma e autonomia di giudizio e pensiero è un impegno che va “rifatto” ogni giorno. L’amico – al contrario – è qualche cosa che ci si acquista ossia conquista poco alla volta e una volta per tutte, ma non va data per scontata: starsi simpatici non basta, c’è proprio un’intenzione transazionale in questa mishnà, contro intuitiva in principio, ma molto vera a pensarci bene. Mi piace immaginare che la somma dei primi due modi di intendere le relazioni porti alla possibilità – processo infinito anch’esso – di riuscire (ogni tanto, anche) a giudicare il nostro prossimo nel modo migliore, e che magari poi, da questo atteggiamento, a sua volta sorga la possibilità di rimettere in atto i primi due comportamenti.

La decima mishnà ci invita ad amare la melachà, ossia il lavoro, l’azione, e il commento spiega che il lavoro è necessario non solo per guadagnarsi da vivere onestamente, bensì anche a chi potrebbe vivere di rendita, poiché l’inazione e l’ozio portano a distrarsi anche dallo studio della Torah. Leggendo questa massima si fatica a comprendere i numerosi haredim (ultra-ortodossi) che dedicano le loro giornate unicamente allo studio della Torah lasciando alla moglie e/o allo Stato (di Israele, in questo caso) l’onore di mantenerli.

Dalla XII mishnà entrano in scena i due protagonisti forse più noti, nonché la “coppia” più amata della Mishnà: Hillel e Shammai. Hillel ci regala forse la frase più citata dei Pirkè Avot, ripresa da Primo Levi come titolo di uno dei suoi libri: “Se non ora quando?”. L’intera mishnà, la XIV, dice: “Se non sono io per me chi per me, e quando io sono per me stesso che cosa sono, e se non ora quando?”. La scorsa settimana era il I Maggio e qui a Parigi ho cantato l’internazionale in francese e poi nella traduzione yiddish di Shloyme An-sky, giornalista, etnografo, drammaturgo, militante socialista ebreo autore del più importante testo del teatro yiddish: Dybbuk (1920). Mentre l’inizio della II strofa recita: “Né dio, né imperatore, né padrone”: Keyn got, keyn keyser un keyn gvir, la medesima strofa prosegue citando la nostra mishnà: Nit ikh far zikh – to ver far mir?! “Se non io per me, chi per me?”… Paradossi solo apparenti del socialismo ebraico, e delle utopie laiche in genere.

una rappresentazione di Hillel e Shammai

Shammai – a volte un po’ ingiustamente accusato di essere burbero e intransigente – interviene nella XV mishnà: “Rendi la tua Torah fissa/stabile, dì poco e fai molto e sii in grado di accogliere ogni essere umano (Adam) con buona grazia, con un bel viso.

Studiare un poco di Torah ogni giorno per farla “tua”, parlare poco ma fare molto ed essere accogliente e gentile con il prossimo. Come dire? Ci proviamo..

(oggi è il giorno n. 17 dell’omer)

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