A chi affideremo il nostro futuro?
Giacomo Kahn interviene su una questione fondamentale per l’ebraismo italiano: quello dei giovani. Siamo sicuri che ci stiamo davvero occupando di loro al meglio?
C’è un insegnamento nel Talmud, che ci viene tramandato attraverso un’immagine suggestiva, persino romantica: “Il mondo si regge sul respiro dei bambini che studiano” (TB, Shabbath 119b). Questo può significare due cose: la sopravvivenza del genere umano è garantita solo dallo sforzo e dalla fatica che gli alunni compiono nell’apprendere ciò che le generazioni precedenti stanno trasmettendo a quelle successive; e secondo che la formazione e l’educazione dei giovani sono una priorità ed una responsabilità da rinnovare e perpetuare ‘dor va dor’, di generazione in generazione.
Questo insegnamento, insieme a tanti altri, assegnano all’educazione un ruolo fondamentale all’interno della tradizione ebraica, che riconosce e assegna responsabilità ed importanza sia allo studente che al maestro.
Arduo è il compito dello studente, e per questo il Talmud ci ricorda che lo sforzo dell’apprendimento consente all’umanità di sopravvivere. Ma altrettanto arduo è il compito del maestro. Mentre allo studente è richiesta disciplina e sacrificio, agli educatori è affidato un ruolo pseudo genitoriale: come per il padre e la madre, anche l’insegnante deve saper gestire le diverse individualità dei ragazzi, non solo trasmettendo conoscenze, ma sollecitandone curiosità, spirito di osservazione, desiderio di allargare l’orizzonte del sapere. Per riuscire in questo difficile compito il maestro deve avere una continua capacità di ascolto, di empatia, ma soprattutto la modestia di sapersi mettere molte volte in discussione ed in confronto. Nel Talmud viene, non a caso, trasmesso l’insegnamento di Rabbì Jehuda: «Molto ho imparato dai miei maestri, di più dai miei colleghi, ma ancora di più dai miei allievi». (TB, Ketubot, 103a).
È banale sottolinearlo ma i giovani sono il futuro e quindi la capacità di qualsiasi società di progettare il domani, di programmare lo sviluppo e la crescita si misurano concretamente su quanto spazio si lascia ai giovani, su quali strumenti di sostegno vengono loro assegnati, su quali reali forme di partecipazione si offre loro nella vita del Paese.
La partecipazione dei giovani alla vita sociale non può essere limitata alle sole straordinarie gesta sportive o alla recente decisione di consentire loro il suffragio per l’elezione al Senato. Rendere i giovani maggiormente protagonisti del cambiamento significa ripensare in chiave organizzativa molti processi culturali e produttivi del Paese, dal volontariato ai settori industriali, dalla conservazione e gestione dell’ambiente alla rappresentanza politica. Relegare i giovani ad una funzione meramente consultiva e non decisionale significa perpetrare una visione medievale della società che si basava sul valore primario dell’esperienza, privilegiando quindi il mero dato anagrafico. Un sistema che bloccava le giovani energie e che ha alla fine sclerotizzato le società, come nel caso dei paesi a regime comunista, nelle quali il potere nelle mani degli anziani ha portato anche a coniare un nuovo termine: ‘gerontocrazia’.
Oggi di fronte ai rapidissimi cambiamenti tecnologici e alle rivoluzionarie trasformazioni e sfide che ne derivano, l’esperienza ha perso buona parte della sua importanza a tutto vantaggio di coloro che hanno le capacità di anticipare le innovazioni, di capire e gestire i cambiamenti, di essere persino ‘visionari’. Sono tutte caratteristiche che appartengono alle nuove generazioni e che hanno consentito l’affermarsi sulla scena planetaria di personalità come Mark Zuckerberg, Evan Spiegel e Bobby Murphy (fondatori di Snapchat), Jeff Bezos, Elon Musk, Bill Gates, Blake Ross (fondatore di Firefox), e di tanti altri giovani imprenditori.
Cosa hanno in comune queste persone? Erano già ultramiliardari all’età di trenta anni. Nel XX secolo, nel corso di appena poche decine di anni, abbiamo avuto un numero di neomiliardari adolescenti superiore a quanti ne avevamo avuti nell’arco dei precedenti 2000 anni. E ciò è avvenuto non perché i giovani della modernità siano più intelligenti di quelli dell’antichità, ma perché sono profondamente cambiate le relazioni intergenerazionali: al posto del potere incondizionato dei genitori e degli insegnati che produceva sudditanza e soggezione e tarpava le ali a qualsiasi spirito libero e innovatore, si è passati ad una educazione che dialoga, che cerca di esaltare le singole personalità, che favorisce il valore della delega e quindi che si basa sul principio della fiducia.
Uno dei grandi laboratori in cui tutto questo si sviluppa e produce benessere, successo e forti motivazioni alla crescita è lo Stato di Israele, la Nation start-up, in cui decine e decine di aziende, imprese ed acceleratori economici nascono, si sviluppano, producono fatturato e poi muoiono sulla spinta ed iniziativa di giovani poco più che ventenni.
Molto è stato scritto su questa straordinaria capacità innovativa dei giovani israeliani e sulle ragioni di questo successo che sinteticamente sono: l’esperienza maturata nel corso del servizio militare che viene poi tradotta in idea di business; la capacità di valutare il rapporto rischi/benefici e il coraggio di intraprendere strade mai percorse che deriva anch’esso dall’esperienza militare; lo spirito di intraprendenza tipico dei nuovi immigrati che hanno poco da perdere; il forte sostegno pubblico in termini di agevolazioni e di accesso al credito.
Se questo è il quadro generale, diventa interessante guardare alla nostra piccola realtà ebraica italiana, chiedendoci: quali sostegni diamo ai nostri giovani? E soprattutto: sappiamo quanti sono i giovani ebrei italiani?
Non conosco il dato ufficiale nazionale e non so nemmeno se le istituzioni ebraiche conoscono esattamente quale sia il numero complessivo dei ragazzi/adolescenti iscritti alle nostre comunità.
Certamente però sappiamo che il trend demografico della popolazione ebraica italiana è in calo da decenni ed oggi a stento dichiariamo che vi sono circa 25.000 ebrei.
Emblematico il caso della comunità ebraica più ‘grande’ (termine che ormai non corrisponde più alla realtà) che ha subito una sensibile diminuzione dei matrimoni (specie lo scorso anno a causa delle restrizioni Covid), un crollo delle nascite che non compensa il numero di persone scomparse (nel 2020 a fronte di 22 nati, ci sono stati oltre 200 persone scomparse, tra decedute, emigrate e cancellate.
Quarantacinque anni fa il demografo Sergio Della Pergola (in ‘Anatomia dell’ebraismo italiano’, Beniamino Carucci Editore, 1976) portava alcuni interessantissimi dati sulla popolazione ebraica italiana:
nel 1938 (alla data del censimento della razza) erano 45.270;
nel 1965 (alla data di un’indagine socio-demografica) gli ebrei erano 32.000;
nel 1975 (grazie alle ondate migratorie da paesi arabi) gli ebrei erano diventati 35.000.
Altrettanto interessanti i dati sulla popolazione ebraica romana.
Nel 1975 i giovani ebrei romani (15-29 anni) erano il 21,5% del totale della popolazione, il tasso di nuzialità era di 5,7 (ovvero 5 matrimoni ogni mille iscritti); il tasso di natalità era 15,8 (ovvero 15 nascite ogni mille iscritti). Dati che nel loro insieme (in controtendenza rispetto al resto della popolazione ebraica italiana delle altre comunità), consentivano a Della Pergola di esprimersi con cauto ottimismo: “a Roma – scriveva – vi è una debole tendenza intrinseca all’incremento della popolazione ebraica”. (pag. 150)
Quarantacinque anni dopo la situazione è totalmente cambiata in peggio e quella previsione non si è realizzata.
Oggi i giovani nella fascia 15-29 anni sono circa il 18% del totale degli iscritti (poco più di 12.500). Il tasso di nuzialità è crollato nel 2018 a 3,2 per registrare il record negativo assoluto nel 2020 con 1,7 matrimoni ogni mille iscritti (appena una ventina di matrimoni). Ancora più drammatico il tasso di natalità che oscilla che è attorno al 6,0 ogni mille iscritti (nel 2020 sono stati registrati appena 66 nuovi nati).
Qualsiasi demografo vi dirà che con queste cifre e con questa stabile e costante denatalità non esiste possibilità di sopravvivenza per nessuna comunità o nucleo sociale.
Ma il popolo ebraico sfida e contraddice tutte le statistiche e noi continuiamo ad avere fede nel miracolo di un popolo numericamente ridotto che attraversa la storia e sopravvive a tutti gli altri popoli. Questo non vuol dire però che nel corso della storia del popolo ebraico non siano scomparse intere comunità, che dal giorno alla notte non siano stati cancellati villaggi e cittadine ebraiche, che intere nazioni non siano state svuotate dalla presenza ebraica. Centinaia sono oggi le località prive di ebrei nelle quali l’ebraismo si era sviluppato arrivando a produrre cultura, conoscenze e laboriosità a beneficio all’intera società circostante.
Nella maggior parte dei casi le comunità sono scomparse a causa dell’odio dei nemici esterni. Anche oggi un nemico esterno mette in pericolo la sopravvivenza delle nostre comunità, un nemico però tutto diverso, non mosso dall’odio ma dal desiderio di omologazione che si nutre di una fragile identità. Esso si chiama: assimilazione. È un nemico che colpisce proprio la fascia più giovane della popolazione ebraica, quella che più delle altre dovrebbe avere aiuti, sostegni, che meriterebbe politiche comunitarie volte a rafforzare la partecipazione di tutti quei giovani che, finito il ciclo scolastico, iniziano una nuova fase della loro vita.
È un momento cruciale, quello delle scelte che segneranno una vita intera.
Cosa si fa per questi giovani? Esistono servizi comunitari specifici per la fascia 20-30 anni (che ricordo sono il 18% del totale della comunità)? Quanto budget viene allocato per sostenere i nostri giovani in un percorso di appartenenza e per contrastare l’abbandono? Domande le cui risposte dovrebbero trovarsi nelle pieghe del bilancio comunitario. Ma io, per miei limiti, non le ho trovate.
Il popolo ebraico certamente continuerà ad esistere e ad attraversare le ere della storia.
Questo non vuol dire però che anche la Roma ebraica ce la farà.
Tutto dipenderà da come sapremo far crescere e aiutare i nostri giovani.
Leggi gli altri articoli di Kahn: sul sionismo, e sulla nostra comunità
Una risposta
Splendido pezzo e meravigliosa riflessione. Kol hakabod Giacomo!