“Non posso rinunciare a ciò che considero un mio preciso dovere. Io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti”.
E’ quello che scrive Angelo Fortunato Formiggini alla moglie prima di togliersi la vita buttandosi dalla Torre della Ghirlandina a Modena il 29 novembre del 1938, a due mesi dal varo delle leggi razziali in Italia. Appartenente alla borghesia ebraica della città emiliana, dove da secoli la sua famiglia risiede protetta dalla Corte estense per poi finire a condividere i progetti e i destini del Regno d’Italia.
Saranno una trentina gli ebrei suicidi a causa delle leggi razziali, come ricorda Aldo Cazzullo nella prefazione al libro di Marco Ventura “IL FUORUSCITO. Storia di Formiggini, l’editore suicida contro le leggi razziali di Mussolini” edito da Piemme (299 pagine 19,50 euro).
Nessuno saprà di quel gesto disperato, compiuto da una personalità eclettica.
Nessuno ne sarebbe venuto a conoscenza perché le leggi razziali impedivano anche di pubblicare notizie sugli ebrei. Pochi mesi prima della legislazione antiebraica Formiggini, secondo le parole dell’autore, aveva scritto “Né ferro, né piombo, né fuoco. Possono salvare. La libertà. Ma la parola soltanto. Questa il tiranno spegne per prima. Ma il silenzio dei morti Rimbomba nel cuore dei vivi”.
Il libro è una testimonianza molto accurata ed approfondita, realizzata passando da documenti storici a ricostruzioni della vita di questo intellettuale innamorato della sua città, dove i suoi antenati originari di Formigine erano diventati gioiellieri e poi banchieri per la casa d’Este. Un creativo del mondo dell’editoria era Formiggini, che ha l’intuizione di voler stampare una Enciclopedia italiana, opera che finirà invece per essere affidata sotto l’autorevolezza di Giovanni Gentile a Giovanni Treccani. Editore particolare, più per passione e piacere che per talento industriale Formiggini (con la pronuncia sdrucciola ricorda e viene ricordato nel libro) si definisce un costruttore di casucce di carta. Dopo aver ricordato gli antenati e le loro gesta nel corsodei secoli a Modena, nella villa lungo il Panaro, dice Formiggini attraverso le parole di Ventura “i miei antenati più prossimi hanno respirato per oltre un secolo l’aria libera dei campi, benemeriti maestri di un’arte che è essenziale per le fortune dell’Italia, parens frugum, e vissero sereni , amati e rispettati da tutti. In quanto agricoltori, sono stati costruttori. Anch’io lo lo sono. Costruttore di casucce di carta. Creatore di gioiellini libreschi. Sono contento che il ciclo della mia famiglia, meravigliosamente attiva nei secoli passati, si compia con l’umanissima impresa del ridere o far ridere. O sorridere. Le persone serie, i filosofi, non ridono mai, io li definirei ‘misogeli’. Metà uomini, metà ghiaccio. Alla larga da costoro. Perché chi non ama il ridere, fateci caso, non ama l’umanità”.
E quando la storia si tramuta in tragedia per l’editore modenese non c’è altro da fare che rinnovare il suo amore per la vita privandosene. L’uomo meno noioso del suo tempo, come lo definirà Bertoni, diventato negli anni precedenti massone, pubblica i libri che gli piacciono, le idee che vuole portare avanti, senza essere mai un editore per i più colti, solo per gli accademici. Ironia, autoironia sono la sua stella polare. Elegante e raffinato senza esser lezioso, gentile, pieno di vezzi e passioni, adora la pipa e la sua stilografica Parker. Scrive l’autore “Formiggini è insofferente verso l’atavismo, la barbarie, il servilismo e lo sarà verso il fascismo visto non dall’alto ma standoci sotto, che è una ben diversa e deteriore esperienza. “Un uomo che coltiva in sommo grado il sorriso” lo definisce il suo amico e compaesano Corrado Alvaro. Sarà costretto per debiti a liquidare la sua azienda mentre già vede definire in modo tragico il suo destino e si firmerà con un soprannome criptico per tutti, tranne forse per sua moglie “il fuoriuscito”: dalla azienda, dalla vita, dalla torre dove trova la morte. Non dal senso dell’umorismo, però.
Grida Italia mentre decide di morire, primo di una serie di suicidi per ribellarsi alle leggi del 1938, a cui seguirà quello del generale Morpurgo. Se il mio sacrificio apparirà un supremo atto di viltà, afferma Formiggini, “vorrà dire che la dea giustizia, che da tempo mi ha voltato le spalle, non la ritroverò benigna nemmeno nell’altra vita. Amen. Sono rassegnato anche a questo”. Ma non si riduca il tutto a credere che il gesto estremo sia dovuto alle sue crisi finanziarie. “Io non posso rinunciare a ciò che considero un mio preciso dovere: io debbo dimostrare l’assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti richiamando l’attenzione sul mio caso che mi pare il più tipico di tutti”. Questo libro dopo più di ottant’anni gli rende giustizia, lo sottrae all’oblio.