Tra la Collina di primavera e la città santa (terza puntata. Fine)
Chiudiamo il reportage di Luca Zevi e su Israele, confrontando ancora Tel Aviv e Gerusalemme, le due metà del cuore di Israele
Metropoli regionale mancata
In uno spirito di grande progettualità politica, economica e urbanistica Tel Aviv fa il suo ingresso nell’ultimo decennio del XX secolo.
Sul piano politico, l’avvio e il rapido sviluppo del processo di pace diffondono un grande ottimismo in una composizione finalmente stabile del quadro mediorientale, all’interno del quale Tel Aviv potrebbe svolgere quel ruolo di incubatore di sviluppo dell’intera regione mediorientale che è parte integrante del sogno dei padri fondatori.
Un ottimismo destinato a essere purtroppo deluso dall’evoluzione della situazione: i contatti che si sviluppano con i territori assegnati all’Autorità Palestinese consistono soprattutto nel pendolarismo quotidiano di lavoratori arabi da e verso le città israeliane, dove vanno a svolgere mansioni per lo più di bassa qualificazione; il riconoscimento del diritto del popolo palestinese all’autogoverno è contraddetto, spesso e volentieri, dalla nascita di nuovi insediamenti israeliani entro i confini del futuro stato palestinese; i rapporti con gli stati arabi limitrofi raramente vanno oltre lo stato di non belligeranza.
La “visita” di Sharon alla spianata delle Moschee e la conseguente esplosione della seconda “intifada” appaiono, in questo senso, più conseguenza che causa di un mancato processo di pacificazione e integrazione.
Con lo stallo del processo di pace la prospettiva di un’integrazione di Israele nel contesto mediorientale sembra tramontare definitivamente e a Tel Aviv – città eminentemente ebraica – addirittura rimossa. Il processo di riqualificazione urbana continua a investire con particolare intensità la zona sud e, “gentrificati” i vecchi borghi ebraici di Nevè Tzedek e di Florentin, va a interessare la zona araba diYafo.
Emblema di un percorso così contraddittorio è il Centro per la Pace fermamente voluto dal Presidente Shimon Peres e progettato dal noto architetto italiano Massimiliano Fuksas. L’edificio sorge sul lungomare di Yafo, ove si sono sviluppati impetuosamente, nel corso degli ultimi anni, processi di acquisizione e investimento immobiliare da parte di imprese israeliane, avvertiti dalla popolazione araba locale come una vera e propria invasione.
Estremo lembo dell’Occidente globalizzato…
A partire dagli anni ’90 la Grande Tel Aviv evolve sempre più in regione metropolitana inscrivibile a tutti gli effetti nel novero delle “città mondiali”, ovvero dei gangli vitali dell’economia post-industriale globalizzata, caratterizzati da un ambiente fisico, nonché da uno stile di vita sociale e culturale, tipicamente post-moderni. Una regione metropolitana che, mancato l’obiettivo di diventare cerniera fra occidente e oriente, rafforza il suo ruolo di estremo baluardo orientale del mondo occidentale globalizzato.
Una “metropoli startup”, che rappresenta il cuore dell’economia post-industriale israeliana e che attira una percentuale molto elevata di investimenti interni ed esteri, spesso rivolti alla creazione di parchi tecnologici popolati da imprese ad alta tecnologia e da centri di informazione e telecomunicazione.
Una capitale altresì dell’industria creativa – con istituti di ricerca avanzatissimi e ogni genere di manifestazioni artistiche – nonchè principale cuore finanziario del paese.
Questo fervore di attività muove dal centro di Tel Aviv verso l’area metropolitana a nord-est, vertebrata dall’autostrada Ayalon, che smista i due poli del parco industriale di Herzliya e della Bursa di Ramat Gan, comodamente collegati tanto con il resto del paese, quanto con il mondo intero attraverso l’aereoporto di Lod, raggiungibile in 15-20 minuti.
Come tutte le città mondiali, anche Tel Aviv è caratterizzata da squilibri sociali sempre maggiori, che rendono vieppiù pallido il ricordo del “socialismo delle origini”. I contrasti sono ben rappresentati dall’aumento delle case di lusso con più di sei vani e, all’opposto, di quelle modeste con uno o due vani soltanto.
Nonostante queste contraddizioni, “la città che non si ferma mai” si schiera fra le città mondiali come quella con un più alto grado di vivibilità – dovuta anche alle dimensioni tutt’ora contenute del centro urbano e al carattere policentrico del tessuto metropolitano -, con una grande vitalità culturale e una popolazione giovane ricca di iniziative.
Questa evoluzione si manifesta, sul piano fisico, nell’introduzione sempre più massiccia di interventi edilizi ad alta densità all’interno di un tessuto tradizionale caratterizzato da edifici di dimensioni assai più ridotte. Un processo assecondato dalle autorità municipali e destinato a svilupparsi ulteriormente.
Un processo che provoca, come in tutte le grandi città del mondo, reazioni e proteste, talora efficacissime come quella citata in difesa della “città bianca” dagli assalti speculativi – che ha condotto all’inserimento del centro di Tel Aviv nella lista dei siti patrimonio dell’umanità formulata dall’Unesco – o come in anni più recenti “Occupy Rotschild”, un movimento di denuncia delle disparità sociali sempre più accentuate. Un processo che stimola il recupero di aree centrali precedentemente degradate e ora diventate trendy come Shenkin.
Certo, il tramonto della speranza nel processo di pace “ebraizza”, per così dire, una popolazione israeliana che vede silenziosamente svanire la ragione sociale sulla quale è stato costruito lo stato ebraico: Israele sente tramontare il proprio carattere ebraico da una presenza palestinese sempre più massiccia; sente tramontare il mito della propria invincibilità a causa di una persistente condizione di minoranza all’interno di un mondo arabo ostile; sente di trovarsi in un contesto internazionale che potrebbe vedersi assottigliare progressivamente, con lo spostamento verso l’estremo oriente dell’asse del mondo, il fronte dei suoi sostenitori intransigenti.
Dunque, cogliere l’attimo fuggente; vivere intensamente il presente, finché dura, massimizzandone le opportunità; accettare, pur senza dichiararlo, una nuova sensazione di precarietà non così dissimile da quella strutturalmente conosciuta in millenni di diaspora.
Certo gli Accordi di Abramo, stretti con la mediazione di Donald Trump fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan, hanno portato in piena luce la collaborazione in funzione anti-iraniana da tempo in corso sotto traccia fra lo Stato ebraico e le monarchie sunnite del Golfo, Arabia Saudita compresa sembrano contraddire questo senso di incertezza e riaccendere la speranza in una composizione stabile del conflitto arabo-israeliano. Ma la sequenza di vicende che ha incendiato il Medio Oriente negli ultimi trent’anni sembrano consigliare cautela a chi nutre pur legittimamente questa speranza.
… e specchio di una competizione incessante
Se dunque il carpe diem appare la cifra della Tel Aviv contemporanea, non altrettanto si può dire di Gerusalemme, il cui inguaribile carattere multietnico e multireligioso non consente alcuna rimozione della persistente drammaticità della situazione.
La Città Vecchia continua a essere “lottizzata” in aree riservate a ciascuna delle fedi monoteistiche che a partire dal ’67, con la ricostruzione del quartiere ebraico, sono tutte rappresentate. L’ “ultima ritornata”, quella ebraica appunto, tende per così dire ad allargarsi, attraverso una forte complicità istituzionale verso gli ultra-ortodossi, che consente loro di subentrare a molte famiglie arabe in altrettante case all’interno del quartiere islamico.
Si tratta di una dinamica non di espulsione generalizzata – ciò che costituisce già un passo avanti rispetto a quanto avveniva in precedenza – ma certo di rideterminazione dei rapporti di forza sul piano etnico, che si ripropone anche alla scala allargata del territorio metropolitano; immediatamente dopo la Guerra dei Sei Giorni comincia infatti un processo di edificazione di insediamenti ebraici – alcuni dei quali diventano rapidamente medie città attrezzate – nella parte orientale della città che precedentemente era sotto il controllo giordano. Si tratta per lo più di edilizia pubblica o comunque fortemente agevolata, mirata a consolidare la presenza israeliana nell’area. A partire da questo nuovo stato di fatto si sviluppa una politica atta a favorire l’espansione degli insediamenti ebraici e, simmetricamente, a scoraggiare quella degli insediamenti arabi, ciò che ha determinato in questi ultimi, come forse era prevedibile, un’esplosione di abusivismo edilizio.
Quest’insieme di politiche urbane, aventi come obiettivo prioritario il mantenimento di una forte prevalenza della componente ebraica all’interno della compagine cittadina, trova una sistematizzazione nel primo Masterplan dell’intero territorio di Gerusalemme dopo la fine del Mandato britannico, approvato nel 2000. Uno strumento urbanistico che, coerentemente con quanto operato in precedenza, prevede un’espansione degli insediamenti ebraici, da una parte, e la densificazione sullo stesso sedime dei villaggi arabi, dall’altro. Il Piano prefigura inoltre un sistema di reti e attrezzature metropolitane capaci di incentivare il carattere unitario – pur nella compresenza di molteplici componenti etnico-culturali – della capitale di Israele. La metropolitana leggera, che mette in collegamento diretto le zone arabe ed ebraiche della città, costituisce da questo punto di vista un intervento strutturale di cui il celebre ponte progettato da Santiago Calatrava è emblema spettacolare.
Certo, questo processo di espansione “a macchia di leopardo” rende sempre meno districabili i territori abitati rispettivamente dai palestinesi e dagli israeliani e dunque di fatto impraticabile la politica di drastica separazione dei rispettivi ambiti prefigurata dal processo di pace. Una politica di cui la barriera di sicurezza che attraversa da nord a sud il territorio statale – e che a Gerusalemme assume le fattezze di un vero e proprio Muro che si spinge fino alle aree centrali – è emblema non meno spettacolare.
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Leggi qui la seconda parte La collina di primavera e la città santa