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I fatti: il mondo del dopoguerra

Successivamente al voto del 29 novembre 1947, il succcessivo 14 maggio 1948 Ben Gurion proclamò la nascita di Israele

Nel dopoguerra l’Europa era il luogo dove si stava svolgendo un gigantesco movimento migratorio che, dopo la Shoah e la Seconda guerra mondiale, coinvolgeva milioni di persone. Una parte d’esse stavano tornando ai paesi d’origine. Altre ancora, però, non avevano più un luogo dove recarsi. È in questo frangente che era ripresa l’attività dell’Aliya Beth, strutturata attraverso una rete ramificata di agenti presenti in tutto il continente, impegnati nel garantire la continuità dei flussi clandestini.

Si trattava ancora una volta di dare seguito al berihah (il «volo segreto»), l’insieme delle operazioni “coperte” che dovevano garantire l’approdo degli ebrei in Eretz Israel. A tale riguardo, la politica britannica era rigidissima e prevedeva l’ingresso misurato con il contagocce, ovvero solo 1.500 accessi al mese.

I flussi di ingresso tra il 1946 e la prima metà del 1948 registrarono nel complesso 17.000 ingressi legali e 39.000 illegali. La via d’accesso obbligata era il mare. Tra l’aprile del 1945 e il gennaio 1948 delle 63 navi clandestine che tentarono di avvicinarsi alle coste palestinesi 58 di esse vennero, con il conseguente internamento dei loro passeggeri.

Chaim Weizmann (1878-1952), primo presidente d’Israele

Il confronto con gli inglesi, dopo il 1945, si era trasformato in aperto scontro militare. Di fatto, al di là delle diverse posizioni politiche nell’Yishuv, si era creata una profonda frattura tra Londra e Gerusalemme: gli inglesi avevano compreso che il futuro li avrebbe visti fuori dalla Palestina; gli ebrei percepivano il rapporto con la potenza mandataria come oramai definitivamente esauritosi.

La situazione si rivelò ben presto senza via d’uscita. Ed è in ragione di ciò che il ministro degli Esteri Bevin, dopo il fallimento di una conferenza tra le parti tenutasi a Londra il mese prima, il 14 febbraio del 1947 dichiarò che la Gran Bretagna intendeva ritirarsi dalla Palestina, demandando alle Nazioni Unite la definizione del futuro status del paese. Si trattava di un percorso di «esternalizzazione» della crisi in atto, che rinviava alla comunità internazionale il ruolo e i poteri relativi alla negoziazione degli interessi contrapposti tra arabi ed ebrei.

Tra la primavera e l’estate dello stesso anno l’Unscop, «United Nations Special Committee on Palestine», composto dai delegati di 11 paesi, ossia Australia, Canada, Cecoslovacchia, Guatemala, India, Iran, Jugoslavia, Paesi Bassi, Perù, Svezia e Uruguay, elaborò la via d’uscita, riassumendola e licenziandola poi in una proposta, approvata della maggioranza dei suoi membri, che prevedeva l’estinzione del Mandato, la costituzione di due Stati indipendenti, uno arabo e l’altro ebraico, e la cosiddetta «internazionalizzazione» di Gerusalemme. Affinché le raccomandazioni si traducessero in fatti occorreva comunque il voto dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Ben Gurion firma la dichiarazione di indipendenza, il 14 maggio 1948

Si trattava di dare corso ad un intenso lavorio diplomatico, per cercare di indirizzare il voto dei delegati delle nazioni che sedevano nell’augusto emiciclo. Per parte ebraica, ci si impegnò in tale senso, pur scontando un senso di minorità che derivava dall’avere un numero ristretto di interlocutori diretti. Non di meno, si sapeva che il destino dell’Yishuv non era tra le priorità dell’agenda politica degli organismi internazionali, in quel tempo invece già attivamente impegnati nel fronteggiare i numeri effetti dei processi di decolonizzazione che la fine della Seconda guerra mondiale aveva innescato o comunque incentivato.

Sul versante arabo, attraversato da molte divisioni al suo interno, privo di un vero interlocutore “palestinese” unitario (all’epoca politicamente inesistente), il destino dei territori mandatari costituivano l’oggetto di alcuni appetiti, come già era avvenuto nel 1918, con il declino di ciò che restava dell’Impero ottomano. In poche parole, non sussisteva preoccupazione alcuna per il futuro delle comunità arabe locali, comunque assimilabili all’egemonia che eventualmente sarebbe stata stabilita dal protagonista di turno.

La situazione sul campo: l’Yshuv e gli arabi

Qual era la reale situazione sul campo, in quei mesi fatidici? Gli scontri armati intercomunitari, prima ancora che tradursi in una guerra tra Stati, avevano conosciuto un’immediata recrudescenza, incrementata dal voto dell’Assemblea generale dell’Onu del 29 novembre 1947, quando una maggioranza di 33 stati contro 13 (tra i quali i 7 stati arabi rappresentati alle Nazioni Unite, l’Afghanistan, la Turchia, il Pakistan, l’India, Cuba e la Grecia) e 10 astenuti (tra di essi la Gran Bretagna) avevano approvato la Risoluzione 181, che formalizzava la nascita di due Stati nella medesima terra.

rav Leib Fishman è il nono firmatario della dichiarazione di indipendenza

Il testo della medesima non a caso recitava: «il Mandato sulla Palestina cessa al più presto possibile, ma in ogni caso non più tardi del 1° agosto 1948. […] Due mesi dopo il ritiro della Potenza mandataria, saranno creati in Palestina due Stati indipendenti, uno arabo e l’altro ebraico, con un regime internazionale speciale per la città di Gerusalemme». Precisati gli improbabili confini dei due futuri Stati, veniva inoltre istituita una Commissione che, in accordo con i rappresentanti delle due comunità politiche, avrebbe dovuto provvedere all’esecuzione del piano di transizione contemplato dalla risoluzione medesima.

Di fatto, l’ostilità britannica rese vano questo proposito. Secondo la Risoluzione 181, inoltre, entrambi i costituendi Stati avrebbero dovuto convocare, entro il primo ottobre del 1948, elezioni per la formazione di un’assemblea investita del ruolo di dotarli di una Costituzione, secondo i principi del governo parlamentare. Liberi ed indipendenti senz’altro ma all’interno di una logica ispirata alle democrazie occidentali. Nei fatti ciò avvenne sul versante ebraico, non in quello arabo. Pur con le mille tensioni generate da una guerra che si svolgeva non solo in campo aperto, tra milizie ed eserciti contrapposti, bensì soprattutto di casa in casa, di strada in strada, di quartiere in quartiere, la trasformazione dell’Yishuv in Stato di Israele ebbe seguito. Tra molte difficoltà. L’intenzione, al riguardo, era maturata nel corso di settant’anni, dal 1880 in poi. Non la stessa cosa poteva invece dirsi della controparte araba, che faticava a pensarsi come un soggetto unitario. I palestinesi, come popolo e comunità politica, sarebbero emersi soltanto negli anni Sessanta, in un contesto storico, a quel punto, completamente diverso da quello del 1948. Un tale differenziale tra le due parti è già sufficiente, alla lente dell’analisi storica, per capire le ragioni che fecero sì che lo Stato degli ebrei nascesse nel mentre non altrettanto avveniva sul fronte opposto.

Quella di Golda Meir è la ventiduesima firma, su trentasette totali, apposte alla dichiarazione di indipendenza

L’Yishuv era costituito, all’epoca, da 630.000 membri, di contro ad una popolazione araba di 1.200.000 elementi. Senza contare la consistenza demografica dei paesi circostanti. Quel che all’insediamento ebraico mancava in termini di numeri era compensato da una superiore capacità operativa e, soprattutto, da un livello motivazionale ben più corposo di quello arabo. Se i secondi dovevano difendere qualcosa che davano per acquisito una volta per sempre – una terra senza uno Stato, ma di “diritto” appartenente alla comunità araba (negli effetti una totale astrazione) – i primi erano invece consapevoli di essere arrivati al dunque, l’evento spartiacque nella loro storia più che cinquantennale di sforzi. L’impegno non poteva né doveva fargli difetto, quindi, nel momento più importante della propria storia. La comunità ebraica palestinese, ancorché avversata in molti modi dalla potenza mandataria, aveva saputo fare della necessità una virtù, non sprecando tempo né opportunità per istituire una solida rete di strutture ed istituzioni, in grado di controllare e gestire il territorio sul quale queste erano sorte.

Di fatto, mentre l’insediamento sionista era articolato secondo le caratteristiche proprie ad una moderna organizzazione, con una forte idealità di riferimento, la comunità araba era invece divisa al suo interno da profonde differenze sociali, prima ancora che politiche.

a Yalta, nel febbraio 1945, Usa, URSS e Gran bretagna decidono le sorti del dopo guerra

Gli ebrei lottavano per costruire uno Stato; gli arabi erano chiamati a difendere qualcosa che non sussisteva se non attraverso i beni di cui erano individualmente proprietari. Come non era esistito uno Stato arabo-palestinese fino ad allora così, ai più, appariva improbabile se non impossibile la sua istituzione nei tempi a venire. Il rifiuto della Risoluzione 181 era, quindi, pressoché completo: non solo per la parte riguardante lo Stato ebraico ma anche, paradossalmente, per quella dello Stato arabo. Come lo storico Gabriele De Rosa ha puntualmente notato, «agli arabi di Palestina premeva più non avere uno Stato ebraico che di averne uno arabo-palestinese».

Un’asimmetria dominava quindi, già allora, i due opposti fronti ed era quella riguardante il progetto politico al quale dare corso. Se per la parte sionista, e poi israeliana, questo fu sempre chiaro, sul versante arabo, e poi palestinese, la mancanza di un orizzonte che non fosse unicamente quello della distruzione dell’«entità sionista», fece sì che per molto tempo ci si fermasse alla retorica dei proclami. Pensando che il coniugarla alla violenza della lotta armata sarebbe bastato da sé a risolvere la situazione che era venuta creandosi nel tempo. Da questo punto di vista, un gravo difetto di comprensione del mutamento che era in corso in quella regione, più per opera di fattori esogeni che non per sola scelta dei protagonisti locali, avrebbe avuto effetti rilevanti per la popolazione araba autoctona.

(continua a pag. 3)

Una risposta

  1. Pregiatissimo professore, dal 1918 al 1948, periodo in cui dalla dominazione ottomana dei territori di Israele si passo al protettorato britannico, alcune fonti dicono che la popolazione ebraica in Israele passò da centomila a più di cinquecentomila persone. Questo un poco contrasta con la scarsa propensione del governo britannico alla migrazione nel territorio da parte degli ebrei. Mi potrebbe chiarire come mai ci fu questo aumento della popolazione se chi amministrava i territori tendeva ad evitarlo? Grazie e buon lavoro

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