Vivere a piazza Bologna (e dintorni): breve viaggio in uno dei quartieri più ‘ngevrim della città, di Massimiliano Boni
Prendere una Coca cola alla Casina Fiorita. Azzuffarsi a margine di una partita di pallone al Campo Latina e poi fare subito pace. Pregare in un cinema e trasformarlo in uno dei Bet ha-Knesset più importanti della città. Vivere da quarant’anni nello stesso quartiere fino a vederlo diventare una delle zone di Roma a più alta densità ebraica. Tutto questo è il mondo che gravita tra Piazza Bologna e viale Libia.
Vivo da queste parti da poco, appena quattro anni. Come ci sia finito è facile a dirsi: era quello che volevo, assieme a tutta la mia famiglia (una moglie, due figli, un cane). Perché? Ma è chiaro: dove altro puoi trovare, a Roma, almeno sei templi aperti per lo più ogni giorno da raggiungere ciascuno a piedi, ristoranti, bistrot, paninoteche, sushi, macellerie e piccoli supermercati, tutti kasher Per non contare le due università, la metropolitana, e poi la vicinanza con la storica Piazza, il cuore ebraico della città, dove, a fine shabbat, prima della pandemia molti di noi si riversavano per due chiacchiere e uno spuntino, e dove ritorneremo non appena ci saremo liberati da questo virus. Insomma, a piazza Bologna, o nel vicino quartiere Africano, Jewish è bello.
Il venerdì gli ambulanti di fiori sanno che venderanno qualche bouquet in più, in autunno e in primavera al mercato di piazza Gimma si trova tutto quello che serve per i sedarim, il sabato mattina i condomini di via Garfagnana, o di via Tripolitania, sono ormai abituati ai canti e all’allegria del kiddush. È facile abitare da queste parti e sentirsi parte di una grande kheillà. Ma quando è nato tutto questo. Per capirlo, ho domandato a chi, in queste vie e piazze, abita da sempre, o comunque è arrivato che era solo un bambino e non è più andato via. Da queste parti, infatti, ha trovato ospitalità buona parte della comunità libica fuggita alla persecuzione del 1967.
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Comincio il mio viaggio nel tempo ascoltando una voce particolare, ormai forse unica: quella di Piero Gai, classe 1929, un pioniere della zona. “Mio padre aprì un negozio di confezioni per uomo nel 1936 a via Ravenna”, mi racconta al telefono, “poi, con leggi razziali, chiuse; il proprietario, Nunes, era un ebreo tunisino che scappò in America. Noi invece siamo rimasti, e dopo la guerra abbiamo ricominciato”. Piero segue le orme del padre e nel 1952 inaugura il suo negozio proprio in piazza. “Gli ebrei che vivevano e lavoravano da queste parti non erano molti. Tra noi ci conoscevamo, i rapporti erano cordiali, ma a dire la verità non molto stretti”. Piero mi fa un rapido elenco, lucidissimo. “Mieli aveva un negozio di tessuti, Della Seta e Piperno vendevano confezioni maschili. C’erano anche i Sonnino, i Campagnano, e qualche altro. Quanto al quartiere, Piero se lo ricorda da sempre come molto residenziale, con i villini dei gerarchi fascisti costruiti attorno a Villa Torlonia”. Gli chiedo anche dell’arrivo degli ebrei libici. “Con loro sono aumentati i servizi, come le prime macellerie kasher. In generale, all’inizio erano più religiosi di noi”, mi spiega. Ascoltare i suoi ricordi è un lungo viaggio a ritroso, da cui, mio malgrado devo congedarmi, per provare a farmi raccontare la vita degli ebrei romani da chi rappresenta la generazione successiva.
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M. abita qui da quand’è nato, se non si considera una piccola parentesi di una manciata d’anni che gli ha fatto capire, come dice con un pizzico di esagerazione, che attorno a piazza Bologna si vive meglio che in tutta Roma. Ebreo romano, dal cognome che affonda nelle radici ebraiche della città, M. è un commerciane che ha visto tempi migliori, che resiste alla crisi del virus con tenacia e la battuta tagliente, e che si immalinconisce appena solo quando pensa alla figlia in Israele, che nell’ultimo anno ha visto troppe poche volte rispetto a quanto avrebbe voluto. “Piazza Bologna”, mi racconta quando gli chiedo di rovistare nei suoi ricordi, “è stata sempre una zona molto popolare e a tratti benestante, per via dell’università, degli uffici, della zona residenziale attorno alla piazza e a villa Torlonia. Qui c’è sempre stata un’umanità varia, per l’immigrazione di molte famiglie meridionali, ad esempio, e poi naturalmente per noi ebrei”. M. mi racconta che, prima del 67, le famiglie ebraiche romane non erano molte. “C’erano i Gai, i Manasse, i Moscati, gli Ottolenghi, i Di Nola, i Pavoncello e poche altre, mi spiega. Non c’erano templi per pregare, e si doveva andare al Tempio grande, in piazza. Si faceva vita riservata, un po’ in disparte. Eravamo ebrei che vivevamo da ebrei ma senza punti di ritrovo. E poi, con l’arrivo degli ebrei dalla Libia Le cose sono cominciate a cambiare, un poco alla volta. Si è cominciato a respirare una vita più ebraica. Da ragazzino, per esempio, anche io sono andato a lezione di ebraico nel tempio di via Garfagnana, il primo a essere stato aperto”. M. mi dice che nei primi tempi le due comunità facevano vita più separata, ma che a poco a poco gli ebrei libici hanno preso confidenza con il territorio, e la loro intraprendenza è emersa. “Gli ebrei libici hanno molto spirito d’iniziativa”, mi spiega, sanno fare squadra, si aiutano tra loro e così si rafforzano; per noi, a dire la verità, spesso sono stati di esempio”. E del quartiere africano, poco distante, che ne pensa? “È un quartiere più popolare e più commerciale rispetto a piazza Bologna. Viale Libia è una lunga strada dedicata allo shopping, forse c’è più animazione. Io preferisco però piazza Bologna. Anche se, a dirti la verità, mia moglie, ebrea romana, viene proprio da viale Libia”.
La chiacchierata con Piero e con M. mi ha condotto, com’era naturale, a bussare alle porte degli ebrei di Libia, per ascoltare anche la loro versione, di come vedono il quartiere e la città. Ho così chiesto a E. di raccontarmi i suoi ricordi.
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E. è una presenza storica del tempio che frequento, anche se non vive a piazza Bologna, ma più verso il centro, a pochi passi da Villa Torlonia. Ebreo libico, ha studiato in Israele ma poi è tornato a Roma, dove ha sposato un’ebrea romana e dove vive con i suoi figli. Ci diamo appuntamento una mattina, dopo che E. ha terminato la sua lezione quotidiana di Talmud. Come molti ebrei libici, la sua storia col quartiere nasce che è solo un bambino: a 5 anni, dopo essere fuggito da Tripoli, è arrivato con la sua famiglia qui, all’inizio aiutato dal Joint Distribution Committee. “Dopodiché”, racconta, “mio padre ha cominciato a inventarsi un nuovo lavoro. Sai”, mi spiega col suo tono tranquillo, da uomo saggio, “noi ebrei tripolini ci adattiamo, e presto siamo ripartiti. E così ecco una nuova vita professionale nell’abbigliamento e una nuova vita sociale e comunitaria. A scuola”, continua E., “mi sono adattato bene. L’italiano lo parlavamo già in Libia, e qui a Roma, anche se all’inizio non legavamo molto con gli ebrei romani, io non ho mai avuto problemi. Forse perché mi preoccupavo di studiare e non badavo al resto”. Gli anni passano, E. cresce, la famiglia vive nel quartiere africano. Di quel tempo ricorda le partite a pallone con gli amici non solo ebrei i riti di via Garfagnana, e quella familiarità con questa zona di Roma che sarà poi fondamentale per le scelte da adulto. “L’università l’ho fatta in Israele”, mi spiega, “ma poi sono tornato in Italia. Qui a Roma stavo bene, la vita era piacevole. Tutto sommato, è un buon paese per vivere”. Insomma, gli chiedo per concludere, che differenza c’è a vivere da questa parte rispetto all’inizio? E. mi dice che ormai non ci sono più molte differenze di abitudini tra ebrei libici ed ebrei romani: “il livello di osservanza è simile, la diffidenza che c’era all’inizio, quando non ci si conosceva, è scomparsa, e ormai i matrimoni tra i ragazzi dei due gruppi sono sempre più numerosi”. E., con la sua moglie romana, in fondo è stato uno che ha aperto la strada.
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Questa caratteristica degli ebrei libici la capacità di adattarsi in fretta, uno spiccato spirito imprenditoriale, la leggerezza e la caparbietà con cui si affronta la vita mi incuriosiscono; decido perciò di chiedere qualcosa anche a N. Di lui non so molto, ma mi ispira il suo volto coriaceo e sorridente, l’aria sorniona ma decisa, l’impressione che si porta dietro di essere sempre a suo agio, dovunque si trovi. Quando gli chiedo di parlargli, N. accetta subito di buon grado. “Sono arrivato a Roma nel 67. Di prima, della Libia, non ricordo che due cose: una bicicletta, con cui pedalavo sotto casa, e poi un venerdì in cui eravamo tutti chiusi in casa, le tapparelle abbassate, e un denso fumo nero che si alzava su Tripoli. Comunque”, continua con una scrollata di spalle, “arrivati a Roma, mi sono subito adattato. La mia vita è stata sempre qui, tra il quartiere africano e piazza Bologna. Da ragazzi ci ritrovavamo tutti assieme, noi ragazzi libici, grazie a Dodi Nahum, che ci coinvolgeva nel basket e nel calcio. Giocavamo dalle parti di piazza Gimma”, continua andando indietro nei ricordi, “dove c’era un campo interra battuta. Ricordo delle partite che finivano spesso in grandissime litigate!” mi dice ridendo soddisfatto, mentre me lo immagino roccioso difensore che dà del filo da torcere contro chiunque gli venga a tiro. “Alla fine, naturalmente, di faceva sempre pace. La nostra squadra era l’Ir-ganim, e ogni anno partecipavamo alla Coppa dell’amicizia. Gareggiavamo con altre squadre romane, e prendevamo sempre delle sberle incredibili!” Dalla Coppa dell’amicizia alla vita a Roma il passo è breve. Chiedo anche a N. qual è stato il rapporto con gli ebrei romani. Mi spiega di essersi subito integrato bene. “Forse quello che abbiamo portato noi”, racconta, “è stata l’innovazione negli affari. Abbiamo introdotto nuovi metodi, nuove idee. Oggi però capita che ebrei libici e romani facciano affari insieme”. Insomma, ecco che ritorna la tenacia come carattere ricorrente, che N. mi conferma parlandomi orgoglioso di un figlio che ormai lavora all’estero. Tenacia che emerge anche alla fine, quando torniamo a parlare di calcio, e della Coppa dell’amicizia. “Ogni anno perdevamo, però non ci siamo mai arresi, e sai una cosa?” mi dice N. entusiasta, “alla fine l’ abbiamo vita quella coppa! Perché noi non ci arrendiamo mai”. Ad ascoltare il suo buon umore contagioso, c’è da credergli.
Una risposta
Giuste osservazioni e piacevoli racconti ben riportati …
Complimenti all’autore e al suo desiderio di conoscere …e far conoscere…