Autore Rav Gianfranco Di Segni
studenti alla Yeshivà Ponevitch

Il pomeriggio, dopo il pranzo e il riposo (che è un “must” nelle yeshivot), studiavamo in un corso di beqiùt (“expertise” – non so come dirlo in italiano), in cui si studia un trattato del Talmud in modo consecutivo, una pagina dopo l’altra. Facevamo diverse pagine a settimana, seppur senza troppi approfondimenti. Lo scopo è familiarizzarsi con i concetti-chiave, la terminologia e la logica del Talmud. Quell’anno in tutta la yeshivà si studiava il trattato Shabbat. La mia classe faceva lezione con rav Klapisch, studiavamo circa un ammùd (pagina) al giorno. Grazie allo studio di quell’anno, quando recentemente ho dovuto scegliere un trattato di cui fare la curatela per il Progetto di Traduzione del Talmud in italiano, ho scelto Shabbat (lo farò insieme a rav Ajò). Lo sottolineo per dire che quanto studiai allora si è rivelato utile a decenni di distanza, sia per la bioetica che per il Talmud. Da notare che il trattato Shabbat non è molto studiato nelle yeshivot, dove si prediligono in genere i trattati di natura più legale come quelli dell’Ordine dei Danni (Seder Neziqin) o quelli sulle questioni matrimoniali (Seder Nashim). Il trattato Shabbat è studiato soprattutto nelle yeshivot a impronta halakhica, dove si studia anche Halakhà oltre che al Talmud. Forse la scelta di studiare Shabbat era stata stimolata dal ritorno a Strasburgo di rav Menachem Monheit come docente. Menachem era stato diversi anni alla Yeshivat “Kol Torà” a Gerusalemme, una yeshivà grande e famosa, il cui Rosh Yeshivà era rav Shlomo Zalman Auerbach, una delle massime autorità halakhiche della seconda metà del Novecento, soprattutto su questioni inerenti l’osservanza dello Shabbat e spesso con posizioni diverse rispetto al Chazon Ish. Allievo di rav Auerbach era rav Yehoshua Neuwirth, di cui era da poco uscito il libro sull’osservanza dello Shabbat Shemiràt Shabbat Kehilkhatà, un’opera basata in buona parte sulle decisioni halakhiche di rav Auerbach. Questo testo ebbe un grandissimo successo editoriale, giunto ormai alla terza edizione (uscita una dozzina d’anni fa). Si tratta probabilmente dell’opera halakhica moderna più diffusa a livello mondiale, tradotta anche in inglese. Il giovane rav Monheit era allievo diretto di rav Neuwirth, e contribuì alla stesura degli indici della prima edizione. Quando una quindicina di anni fa mio figlio Jacov voleva scegliere una yeshivà dove studiare dopo la maturità, ci indirizzammo a Kol Torà. Dissi all’attuale Rosh Yeshivà che Jacov aspirava a diventare rabbino e a esercitare questo ruolo in una qualche comunità, ma lui ci disse che a Kol Torà questo tipo di studi non si fa (studiare per diventare rabbini è considerato uno studio di livello inferiore, un po’ come la differenza fra la ricerca scientifica di base e quella applicata) e ci consigliò di rivolgerci a un’altra yeshivà, collegata con Kol Torà, più piccola e di impostazione più halakhica, la Yeshivat “Chokhmat Shlomò” (a nome di rav Auerbach z.l.), diretta da… rav Neuwirth! Dissi a Jacov che si stava chiudendo un cerchio. Jacov accettò la proposta e mi sembra si sia trovato molto bene. Ma questo magari lo chiederete a lui.

Rav Auerbach

Mi incuriosiscono la figura di rav Neuwirth e il suo libro. Ci puoi dire qualcosa di più?

Neanche io conoscevo la genesi del libro fino a che l’ho letta nell’introduzione alla terza edizione, su segnalazione di Jacov (spesso si tende a saltare le introduzioni, e invece andrebbero sempre lette!). Rav Neuwirth era nato a Berlino nel 1927. Suo padre era stato rabbino in diverse città europee. Con l’ascesa del nazismo, il padre decise di rifugiarsi con la famiglia in Olanda, ad Amsterdam, ma quando anche questa città fu invasa dai nazisti, si dovettero nascondere per tre anni in una casa senza mai uscirne né affacciarsi alle finestre per timore di essere scoperti. Due fratelli maggiori di Yehoshua, che non vivevano in Olanda ma erano andati a studiare in Francia, furono deportati e uccisi ad Aushwitz. Nell’introduzione, rav Neuwirth descrive in dettaglio come passarono quegli anni di nascosto e come riuscirono a osservare le mitzwot, lo Shabbat e le feste. Un anno dopo la liberazione, nel 1946, il giovane Yehoshua si unì a un gruppo di altri giovani religiosi e decisero di imbarcarsi dal porto di Marsiglia in una nave che li avrebbe portati clandestinamente in Eretz Israel. La partenza, però, era programmata di Shabbat. Impossibilitati a fare nulla per cambiare la data, senza alternativa di sussistenza e di alloggio, i giovani si imbarcarono lo stesso. Poi si venne a sapere che l’organizzazione sionista incaricata del trasporto aveva programmato intenzionalmente la partenza di Shabbat per “educare” fin dall’inizio i giovani osservanti a diventare dei “nuovi ebrei”, liberi dai vincoli religiosi. Questa era l’atmosfera in quegli anni. Talmente scosso da questa circostanza, Yehoshua decise che “da grande” avrebbe fatto qualcosa a beneficio dell’osservanza dello Shabbat. Giunto in Israele (dove poi arrivarono gli altri membri della sua famiglia sopravvissuti alla Shoah), andò a studiare a Kol Torà e lì conobbe rav Auerbach, divenendone l’allievo scelto. Così arrivò a scrivere il libro sulle regole dello Shabbat che sarebbe diventato un libro di testo. Il successo fu immediato, ma ricevette diverse critiche per delle decisioni considerate troppo permissive.

Rav Neuwirth

Una storia notevole. Ci puoi fare qualche esempio di decisioni permissive?

Dovrei fare una lezione dettagliata sui fondamenti delle regole sabbatiche, non è facile qui. Nella seconda edizione del libro, uscita nel ’79, rav Neuwirth chiarì meglio le sue posizioni e apportò diversi cambiamenti sulla base delle critiche ricevute, previo confronto continuo con rav Auerbach. La vulgata dell’ebraismo, soprattutto italiano, sostiene che i rabbini tendono a vietare il più possibile, ma non è sempre così. Spesso i rabbini permettono e rav Neuwirth ne è stato un esempio. Un altro esempio è stato rav Ovadia Yosef z.l., il rabbino sefardita di maggiore influenza negli ultimi 100 anni. Fu nominato rabbino capo di Israele nel ’73, l’anno in cui arrivai in Israele. Anche lui spesso adottò posizioni halakhiche facilitanti, sostenute da una strabiliante conoscenza delle fonti. Mi ricordo che una volta, per Shabbat Teshuvà, andai a sentire la sua derashà. Era pieno di gente. Andava per strada contorniato da uno stuolo di accompagnatori, vestito con il turbante e la palandrana tradizionale tipica del Rishon leTzion, come viene chiamato il rabbino capo sefardita d’Israele. Il problema è che tali vesti le mantenne anche dopo la conclusione del mandato di dieci anni e dopo la nomina del nuovo Rishon LeTzion, rav Mordechai Eliyhau z.l., così che c’erano due rabbini capi che si vestivano allo stesso modo… (Rav Ovadya fu da molti criticato per questo comportamento ma è lui ad aver restituito il giusto kavod all’ebraismo rabbinico sefardita).

Rav Ovadia Yosef

Torniamo alla vita in yeshivà. Per i Sabati e le feste come facevate?

Di Shabbat spesso gli allievi erano invitati dai docenti o da altre famiglie che ruotavano attorno alla yeshivà, dove di Shabbat funzionava un bet hakeneset che attirava molta gente. Volendo si poteva rimanere anche in yeshivà e fare i pasti sabbatici fra noi studenti. Per le vacanze di Chanukkà tornai a Roma e andai anche al campeggio invernale del Benè Akivà, dove mi avevano chiesto di fare il madrikh. Pesach, invece, lo trascorsi a Strasburgo. Per il Seder fui invitato da Menachem e sua madre (Menachem non era ancora sposato, si sposò qualche anno dopo con una ragazza tripolina di Roma, Liliana Nahum). A parte il menù del Seder, ovviamente ashkenazita-polacco, diverso da quello a cui ero abituato (in particolare il maror, che non consiste della lattuga dolce-amara come da noi, ma del rafano, che mi lasciò senza respiro per diversi secondi), mi è rimasto impresso nella memoria un episodio interessante. Molte famiglie, alcuni giorni prima di Pesach, usavano comprare pesci vivi e li tenevano in casa nella vasca da bagno, controllando che non venisse dato loro del mangime chametz, così che, dopo cucinati, non rimanesse neanche l’ombra di chametz. È una rigorosità, ma si sa che per Pesach tutte le comunità ebraiche, dalle ashkenazite a quelle sefardite e alle italiane adottano degli standard di kashrut molto elevati. (Fra i tripolini ci sono quelli che non mangiano affatto pollo durante Pesach per il timore che rimangano chicchi di grano nell’esofago o nello stomaco, che con la cottura potrebbero fermentare).

un’altra immagine di Straburgo

Ma torniamo ai pesci. Il problema era che se non si aveva del mangime privo di chametz, i pesci rischiavano di morire di fame, con una inutile sofferenza. Menachem non ci pensò due volte. Diede ai pesci delle molliche di pane, spiegandomi che il divieto di procurare dolore agli animali (tza’ar ba’alè chayim) è più importante dello scrupolo che nelle interiora del pesce rimanga del chametz non digerito, cosa del resto improbabile. Fu un insegnamento notevole: non basta lo studio teorico sui libri, bisogna anche frequentare i Maestri per vedere da loro stessi il comportamento da seguire (quello che in ebraico si chiama shimmùsh talmidè chakhamim). Forse da quell’episodio e da altri che mi capitarono in seguito, oltre che dai miei studi biologici, si rafforzò in me la sensibilità per il dolore degli animali. Decenni dopo avrei scritto su quest’argomento un articolo per la Rassegna Mensile d’Israel.

(continua a pag. 3)

2 risposte

  1. Con rav Disegni abbiano una lunga consuetudini di rapporti. È cugino primo di una mia cugina fiorentina. L’ho sempre stimato per la sua duplice cultura cosa checko accomuna a rav Riccardo Di Degni

  2. Ripeto quanto ho detto in una precedente mail anche lei è un maestro
    Ho letto questa seconda parte avidamente:la lettura apre un orizzonte a perdita d’occhio di storia e cultura il dialogo con i maestri l’attenzione rispettosa sia per i maestri che per i libri
    l’intreccio tra vita privata e le vicende recenti e lontane di Israele
    la sua passione per la Haláka e lo inedito metodo del Talmud…

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