Mi piaceva fare fotografie (mi è sempre piaciuto). Spesso andavo in città vecchia per fare foto. Le stampavo da solo nella camera oscura del laboratorio dove facevo la tesi, dopo aver chiesto il permesso ai responsabili (avevo imparato a stampare già a Roma all’epoca del liceo). La foto dei chasidim in bicicletta nella discesa verso il Kotel mi valse, 3-4 anni dopo, il terzo premio a un concorso fotografico indetto da Shalom, con la pubblicazione e l’omaggio di una valigetta 24 ore che conservo ancora. Un colpo d’occhio fortunato? Sì, ma ci vuole anche la mano pronta e una certa capacità di predisporre la macchina con i parametri giusti.
Quando tornasti in Italia?
A dicembre ’78. Discussi la tesi all’esame di laurea a fine ottobre del ’78. Il voto finale del Master fu 92/100, che mi permise poi in Italia, all’atto della equipollenza, di ottenere 110 e lode (questa faccenda dell’equipollenza non fu affatto semplice, ma ve la racconterò un’altra volta). La tesi l’avevo scritta parte in inglese (si trattava di tre articoli pubblicati o in corso di pubblicazione) e parte in ebraico (l’introduzione e un corposo sunto), ma non feci in tempo a rilegarla prima di partire. La cosa non fu vista di buon occhio da uno dei membri della commissione (che per fortuna mi conosceva bene e mi stimava, avendo frequentato un suo corso, e ci passò sopra). Si incaricò gentilmente Haim Rosen di far rilegare la tesi e presentarla in segreteria. (Anche con Haim sono rimasto in contatto ed è venuto al matrimonio di mia figlia Micol nel 2015).
Gli ultimi mesi di permanenza a Gerusalemme furono un po’ complicati. L’affitto della casa non mi era stato rinnovato e dovetti cercarmi un altro alloggio che trovai solo per tre mesi, poi mi feci ospitare da questo o quell’altro amico. In più, dovevo spedire le mie cose in Italia o distribuirle a destra e a manca. Fu un periodo di scombussolamento generale, sia psicologico che materiale: non era facile né semplice lasciare una città dove avevo vissuto per 5 anni e mezzo e dove mi ero fatto tanti amici e colleghi.
Come cercasti un posto dove andare a fare ricerca in Italia ?
Avevo richiesto una borsa del Ministero degli Esteri italiano nell’ambito dell’AIRE (Associazione Italiani Residenti all’Estero), valevole un anno con possibilità di rinnovo (fu poi rinnovata per diversi anni, il massimo che riuscii a ottenere). Benché la risposta positiva dal Ministero mi arrivò solo verso novembre del ’78, già da prima, quando venni a Roma per Pesach, andai all’Università a cercare un posto dove svolgere la ricerca. Andai prima di tutto a parlare con Giorgio Tecce, allora Preside della Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali alla Sapienza e biologo molecolare lui stesso, in grado quindi di capire il lavoro che avevo fatto durante la tesi.
Mi accolse in modo un po’ sbrigativo, e mi indirizzò a Francesco Amaldi, un altro illustre biologo molecolare dell’area romana che aveva il laboratorio al piano di sotto, figlio del noto fisico Edoardo Amaldi, l’ultimo esponente della Scuola di fisica di Via Panisperna e grande organizzatore della fisica italiana ed europea nonché fondatore del CERN. Francesco Amaldi mi ascoltò con maggiore attenzione e credo fu colpito dal lavoro che avevo fatto (ho imparato presto a vendere bene il mio curriculum). Capì che era di buon livello e mi disse: “Ma lascia perdere l’Università, vai piuttosto al CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) da Glauco Tocchini-Valentini, il migliore nella biologia molecolare a Roma, al Laboratorio di biologia cellulare”. Mi informai dove fosse quel Laboratorio: era a via Romagnosi, vicino a Piazzale Flaminio e Piazza del Popolo. La cosa si faceva interessante, solo 2-3 chilometri da casa mia e in pieno centro. Poi venni a sapere che il Direttore del Laboratorio era Rita Levi-Montalcini, già molto famosa anche se ancora non aveva ricevuto il Premio Nobel (le sarebbe arrivato nel 1986). A quel punto non avevo più dubbi. Quello era il mio posto. Andai a parlare con Tocchini-Valentini, feci il mio “show” e Glauco e il suo gruppo mostrarono interesse. Soprattutto giocava a mio favore il fatto che andavo con una borsa di studio procurata da me (la cosa più difficile nel mondo della ricerca italiano era – è – trovare borse di studio con cui pagare i giovani ricercatori, per non parlare di posti veri e propri).
Tornato in Israele ne parlai con Kaempfer e mi disse che in effetti conosceva bene Glauco e mi consigliò di andare nel suo laboratorio. Anche Yechiel Becker, il Direttore, lo conosceva: è un gentleman, mi disse. Scrissi a Glauco una lettera ufficiale di richiesta di lavoro nel suo gruppo, allegando lettere di raccomandazione di Kaempfer e altri docenti (in Israele, come in America, queste lettere sono fondamentali), e fui accettato. Da allora sono parte di quell’istituto del CNR, che nel frattempo ha assunto svariate altre denominazioni e ha cambiato molti direttori e sedi (dal 1997 si trova a Monterotondo che – insieme a Montelibretti – costituisce la maggiore area di ricerca del CNR in provincia di Roma).
Così, sul finire del dicembre del ’78, iniziai una nuova fase della mia vita lavorativa (e non solo). Una trentina d’anni dopo, tutto ciò mi avrebbe portato al Progetto di Traduzione del Talmud in italiano, un progetto che vede la collaborazione tra l’UCEI-Collegio rabbinico italiano e il CNR. Nelle fasi iniziali di messa a punto del Progetto, nato da un’idea della prof.ssa Clelia Piperno e di rav Riccardo Di Segni, serviva un ricercatore del CNR che sapesse cosa è il Talmud. Certo, potevano ricorrere a un consulente esterno, che però non sempre sarebbe stato disponibile e, in più, sarebbe costato una consistente cifra. Molto meglio un dipendente del CNR, sempre a disposizione. La probabilità di trovare un ricercatore che si barcamenasse un po’ nel mare magnum del Talmud era bassissima, dell’ordine di 1 a 5,500 (il numero dei ricercatori del CNR). Fu come partecipare a un concorso con un unico candidato.
Il Talmud, nel trattato Makkot (10b), afferma: Ba-dèrekh she-adàm rotzè lelèkh bah molichìm otò, ossia: “Nella strada che uno vuole percorrere, in quella lo si conduce”.
Tornato in Italia, potei anche riprendere gli studi al Collegio rabbinico, prima in modo informale e poi da iscritto regolare, che col tempo mi avrebbero portato alla laurea rabbinica nel 1999. Ma di questo è meglio parlare un’altra volta.
Grazie mille, allora alla prossima (cerca di non far passare troppo tempo).
Leggi le puntate precedenti:
n. 1: gli anni del liceo e il Benè Akiva
n. 2: Strasburgo
n. 3: Prima del Kippur
n. 4: in giro per Israele
Leggi anche: viaggio nel rabinato italiano