Una guerra sempre più difficile per Israele
Mirko Campochiari è esperto di tattiche e strategie militari e azioni di guerra. A Riflessi spiega il suo punto di vista sulle operazioni a Gaza
Mirko Campochiari, a che punto è la guerra di Israele ad Hamas?
Direi che siamo appena nella sua seconda fase. Da quel che risulta dalle mappe di geolocalizzazione, le forze di IDF hanno quasi isolato anche la parte a sud della Striscia di Gaza. In sostanza, l’esercito israeliano si muove, come già fatto al Nord, separando porzioni di territorio l’una dall’altra, per poi entrarvi e bonificarle. Attualmente risulta che le forze israeliane abbiano perso circa 150 mezzi, che non sono pochi, oltre alle morti di alcune decine di soldati. Per valutare l’efficacia dell’operazione, dunque, occorre non soltanto soffermarsi sulla conquista del territorio, ma anche sulla capacità di bonificarlo e conservarlo.
Questa guerra è iniziata il 7 ottobre, con l’attacco terroristico di Hamas che ha provocato oltre 1400 morti. Da un punto di vista tecnico, gli uomini di Hamas hanno svolto realizzato un’azione terroristica, paramilitare o militare?
Mi sembra chiaro che quella del 7 ottobre sia stata un’azione paragonabile a quella di un esercito regolare. Ciò si ricava dall’esame dell’alto livello di coordinamento fra le varie azioni, dal fatto che è stato realizzato un assalto anfibio e aviotrasportato, dalla conoscenza dettagliata delle basi israeliane attaccate; tra l’altro sono stati sottratti anche mezzi corazzati, che probabilmente saranno utilizzate nell’ultima fase del conflitto. Tutto ciò è stato realizzato senza un coordinamento satellitare, il che lascia pensare che i soggetti coinvolti nell’attacco abbiano ricevuto un lungo addestramento all’estero, per esempio in Libia, da parte di addestratori, come quelli della Wagner, o da ex Legionari. L’operazione è però stata possibile anche perché i servizi di intelligence occidentali avevano ormai derubricato Hamas a un problema regionale, e perché il Mossad e lo Shin Bet hanno commesso ulteriori errori.
Di che tipo?
Innanzitutto è ormai abbastanza certo che le notizie di un’imminente attacco fossero state captate dai servizi di intelligence. Il Mossad insomma sapeva che c’era qualcosa che bolliva in pentola. Eppure non c’è stata alcuna prevenzione.
Perché?
Ci sono varie possibilità: o chi doveva valutare le informazioni ricevute le ha sottovalutate, oppure c’è stato un calcolo, poi dimostratosi tragicamente errato, di creare un casus belli che permettesse una reazione e un intervento a Gaza, o infine le tensioni registrate nell’anno di governo Netanyahu sono state tali da abbassare il livello di comunicazione e di scambio di informazioni fra l’apparato di intelligence, quello militare e quello politico.
Dopo il 7 ottobre Israele ha atteso circa due settimane prima di avviare l’azione militare. Questo significa che non c’erano piani di attacco stabiliti?
Il ritardo nell’avvio dell’azione militare si spiega con vari motivi. Ad esempio, gli americani hanno spinto molto gli israeliani a posticipare l’azione, al fine di identificare bene i bersagli e ridurre al massimo i danni. Quanto alla presenza di piani di attacco, ogni Stato e ogni apparato militare si esercita costantemente in quelli che possiamo definire “giochi di guerra”, in cui simula eventuali scenari. Escludo dunque che gli israeliani non avessero piani di attacco a Gaza. In ogni caso, il ritardo dell’intervento ha certo complicato le operazioni: se uno degli obiettivi era colpire i capi militari di Hamas, questi hanno avuto tempo per mettersi al riparo. Ad oggi si segnalano solo poche incursioni militari speciali israeliane a Gaza, che tra l’altro hanno portato alla cattura del vice ammiraglio della cosiddetta Marina di Hamas; per il resto, al momento Israele ha eliminato soltanto capi di secondo livello.
Si legge che uno dei possibili target di Israele in questo momento sia l’individuazione di Sinwar, il capo militare di Hamas e ideatore dell’attacco del 7 ottobre.
Sinwar certo è uno degli obiettivi di Israele, anche se non credo che sia l’unico. Per comprendere le prossime mosse d’Israele occorre infatti capire innanzitutto gli obiettivi di Netanyahu.
E quali sarebbero?
Mi sembra evidente che Netanyahu si sia sempre mosso sulla base di due suoi imperativi: vendicare la morte del fratello Jonathan nel 1976, ucciso a Entebbe per mano di alcuni terroristi nell’operazione di liberazione di ostaggi in un aereo dirottato; e distruggere Hamas. Inoltre non dobbiamo sottovalutare che politicamente Netanyahu sa che il suo governo probabilmente finirebbe il giorno dopo la fine delle operazioni, e questo è un problema per Israele, perché la guerra potrebbe essere legata alle esigenze personali di una persona anziché a obiettivi oggettivi. In altre parole, c’è il rischio che questa guerra si trasformi in una guerra di sopravvivenza politica per Netanyahu.
In generale, qual è la strategia che muove Israele nei vari conflitti che l’hanno vista coinvolta nella sua storia?
Fino al 2013 le strategie militari di Israele erano coperte da segreto, poi si è deciso di renderle pubbliche. Sappiamo quindi che la strategia militare di Israele è molto semplice: circondato com’è da paesi tendenzialmente ostili, Israele non può permettersi mai alcuna sconfitta militare e quindi reagisce con la massima violenza a ogni minaccia che arrivi alla sua sicurezza. Questo obiettivo, con il 7 ottobre, si è dimostrato anche avere un punto debole: Hamas infatti ha scommesso sulla reazione spropositata di Israele perché essa riportasse in auge la questione palestinese.
Tuttavia, anche Hamas ha commesso degli errori.
Certamente. Hamas aveva scommesso sulla chiamata alle armi sia di Hezbollah che della Cisgiordania. Invece la guerra non si è estesa, e anche l’Iran ha preso le distanze da Hamas.
Torniamo alle operazioni in corso. Uno dei punti più controversi la possibilità di raggiungere e neutralizzare i tunnel scavati a centinaia sotto Gaza. Si tratta di un obiettivo raggiungibile?
Espugnare i tunnel sotto Gaza effettivamente è un affare complicatissimo, dal punto di vista psicologico e logistico. La cosa migliore è individuarli e farli saltare o comunque intervenire a distanza. Il problema è che occorre individuarli tutti e questa operazione richiede molto tempo.
Un altro aspetto molto controverso il numero delle vittime rispetto alla potenza di fuoco impiegata da Israele.
Le fonti di Hamas ci dicono che i morti nella Striscia di Gaza ad oggi sono circa 17 mila. Se confrontiamo questo numero con i morti civili in Ucraina in quasi due anni di conflitto, ingaggiato da due eserciti convenzionali, vediamo che là si sono raggiunte le 10.000 vittime. La mia impressione è che Israele si sforzi di colpire l’uovo nero in un cestino composto da uova bianche, dove l’uovo nero è Hamas e quelle bianche sono la popolazione civile palestinese. È evidente che, per quanti sforzi si possano fare, ci saranno sempre effetti collaterali. Credo che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, Israele sia mosso essenzialmente dal desiderio di neutralizzare i capi di Hamas, è che questa esigenza sia prevalente anche rispetto a quella di preservare il più possibile le vite civili. Teniamo anche conto che l’altissima densità di abitanti in tutta la striscia rende inevitabile l’effetto di un così numero alto di vittime; credo però che una democrazia debba considerare anche tali effetti.
Quanto potrà durare ancora l’offensiva israeliana?
La mia idea è che tutta la guerra durerà due o tre fasi, in cui le prime sono dedicate alla conquista del territorio, e l’altra ha la bonifica dello stesso, il che significa setacciare ogni zona conquistata alla ricerca dei responsabili di Hamas. per quel che ho detto prima, sa è possibile che Netanyahu cerchi di rallentare queste operazioni portandole per le lunghe. A queste fasi non è da escludere infine una ulteriore, al momento appena accennata, che consiste nell’andare alla ricerca dei veri capi di Hamas ovunque si trovino ed eliminarli, anche a costo di compromettere le relazioni con altri paesi, come ad esempio il Qatar.
E per il dopoguerra cosa si prevede per Gaza?
Nessun paese arabo al momento è interessato a sostituirsi ad Hamas: non in Libano, non l’Egitto, non certo la Siria. Questo è il problema, che nessuno sa cosa succederà il giorno dopo le operazioni militari saranno dichiarate concluse. Questo è un problema principalmente per Israele, perché se pensasse di uscire da Gaza semplicemente lasciandosi alle spalle un territorio senza più infrastrutture, il rischio fortissimo è che, seppure a distanza di anni, potrebbe poi subire nuovi attacchi da chi nel frattempo avrebbe preso il posto dell’attuale Hamas. Ancora una volta la questione è legata a Netanyahu, che mi sembra più preoccupato di inseguire i suoi obiettivi personali che di costruire un futuro per il paese.
L’attacco di Hamas sembra avere incrinato l’alone di invincibilità di Israele. Questo comporta il rischio di un’estensione del fronte?
Direi che al momento è abbastanza sicuro che non ci saranno nuovi fronti aperti, né dal Libano né altrove. Se infatti Hamas avesse ricevuto degli aiuti, questi sarebbero arrivati subito dopo il 7 ottobre, in modo da saturare il sistema di difesa dell’Iron Dome. Se questo non è accaduto, significa che i potenziali nemici di Israele hanno deciso di non entrare in questa guerra.
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