Una ferita italiana?
Tra pochi giorni l’editore Belforte pubblica un saggio corale, che ricostruisce l’attentato al Tempio maggiore del 1982 raccogliendo testimonianze, ricordi, interviste. Perché la morte di un bambino e il ferimento di 40 persone non fu né una questione privata né (solo) l’ennesima disgrazia subita dal popolo ebraico, ma una pagina drammatica della Repubblica, che va raccontata ascoltando più voci. Riflessi pubblica in anteprima l’introduzione di uno degli autori
Quel maledetto giorno
Quel maledetto giorno, 9 ottobre 1982, alle ore 11,50, mi trovavo in via Tuscolana, nel negozio di Giovanni Terracina (“Fettina”), uno dei responsabili del Gruppo Ebraico Volontari, con mio fratello Dario, che aveva da poco fondato, insieme all’amico Maurizio Molinari, il Movimento Culturale degli Studenti Ebrei (M.C.S.E.).
Ricordo bene il momento in cui Giovanni ricevette la telefonata con cui veniva avvisato che, al Tempio maggiore di Roma, qualcuno aveva gettato bombe a mano e mitragliato gli ebrei che uscivano dal Tempio al termine della funzione, nel giorno di Sheminì Atzeret, con i loro bambini ai quali era stata appena impartita una benedizione speciale.
Con il turbamento e la preoccupazione che ci si può immaginare, uscimmo dal negozio per andare al Tempio di corsa, dove ci saremmo tutti rivisti.
Mentre tornavamo verso il centro, dopo un primo momento di sgomento, cominciammo a riflettere su cosa potessimo fare. Decidemmo così di recarci in una copisteria, in una traversa di via XX Settembre, per chiedere di ciclostilare un volantino che avremmo distribuito al Tempio per manifestare il nostro sdegno per la campagna di odio che da mesi stava colpendo Israele e di riflesso l’intero mondo ebraico, compresi noi ebrei italiani.
Fu così che scrivemmo quel volantino che, dopo un paio d’ore dall’attentato, fu attaccato sulla cancellata del Tempio, lato Lungotevere, dove già erano stati deposti i primi mazzi di fiori, e le altre copie che avevamo fatto stampare furono distribuite ai vari passanti accorsi, in particolare ai tanti giornalisti che si trovavano sul posto per scrivere i loro resoconti.
Decidemmo di ringraziare, con una mal celata ironia, le principali testate e alcuni politici, che si erano segnalati per i loro attacchi virulenti contro lo Stato di Israele. Testualmente il volantino così recitava:
“Grazie!!! Ringraziamo la Stampa: la Repubblica, L’Unità, il Paese Sera, il Messaggero, il Corriere della Sera, l’Avanti, il Manifesto, Panorama, l’Espresso.
Il Presidente Pertini, Andreotti e il Papa per i loro articoli ed i loro incontri con Arafat. Questi hanno causato antisemitismo come durante il fascismo. Non desideriamo articoli di compassione”.
Il messaggio-accusa che mandammo alla stampa ed alla classe politica era che con la loro campagna di criminalizzazione dello Stato di Israele, con la confusione che da mesi avevano creato tra Sionismo, Israele, governo ed ebrei, con il loro abbraccio ad Arafat, accolto entusiasticamente, come un capo di Stato, dal presidente della Repubblica Pertini, dal Papa (Giovanni Paolo II) e dal Parlamento italiano, avevano reso possibile l’attentato, che tutti immediatamente attribuimmo al terrorismo palestinese; era con le loro azioni e parole, infatti, che avevano dato al mondo intero la convinzione che l’Italia fosse schierata a favore della lotta palestinese ed avevano, così, creato quell’humus favorevole alla strage della Sinagoga, quel clima che piace ai terroristi perché gli dà la speranza che il loro attentato possa essere meglio accolto con favore dall’opinione pubblica e magari emulato.
Il volantino, nel comprensibile e legittimo silenzio, attonito, delle Istituzioni ebraiche, anche per il doveroso rispetto dello shabbat, fu ripreso da tutti i giornali usciti il giorno dopo ed inquadrato da tutti i filmati mandati in onda durante i vari telegiornali; risultò essere un messaggio chiaro ed inequivocabile di quello che era il sentimento degli ebrei in quei giorni.
Tutti si chiedevano perché, nonostante la catena di attentati che aveva colpito varie sinagoghe in Europa, ma anche a Milano solo pochi giorni prima, proprio quel giorno la sorveglianza fissa della polizia non c’era e tutti pensavano alle responsabilità del ministro degli Interni Virginio Rognoni, che, è bene ricordare, era anche presidente dell’Associazione Nazionale di Amicizia e Cooperazione italo-araba.
La rabbia e l’esasperazione era ai massimi livelli e contenuta con grande difficoltà.
Tutte le visite dei politici vennero respinte violentemente e nessuno dei nostri rappresentanti ufficiali volle incontrarli. La Comunità aveva desiderio di chiudersi in sé stessa, di vivere il lutto al proprio interno respingendo ai mittenti le manifestazioni di cordoglio e solidarietà che giungevano da ogni parte. Solo Marco Pannella fu accolto da vero amico di Israele e del mondo ebraico. Lo stesso presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, seppure si fosse rifiutato di incontrare Arafat, e fosse notoriamente amico, fu accolto con molta freddezza.
Durante il giorno molti cartelli di protesta vennero affissi sulla fiancata del Tempio. C’era scritto: “Pertini, con un telegramma non ridai la vita agli innocenti”, “Chiediamo allo stato di difenderci dagli attentati”, “Il petrolio si paga in dollari non con il sangue dei bambini”, “Santo Padre hai benedetto gli assassini”. Il cartello più grosso diceva: “Cgil, Cisl, Uil il 25 giugno, una bara vuota davanti al Tempio. Oggi anche grazie a voi ne abbiamo una piena”.
Un corteo di protesta si formò spontaneamente, partì dalla Piazza ed arrivò nei pressi di Via Nomentana, presso la sede dell’OLP, che era molto protetta dalla polizia, la quale sciolse la manifestazione dopo alcuni scontri. La notte esplose una bomba davanti all’ambasciata di Siria in Piazza dell’Ara Coeli e più tardi ci fu una nuova esplosione in Via Bertoloni, dove aveva sede il “Centro islamico culturale italiano”. Qualche giorno dopo tre chili di dinamite venivano fatti esplodere davanti alla sede di Radio Onda Rossa, in Via dei Volsci; la Radio, anziché accusare i fascisti, accusò subito i “nazi-sionisti”. Il clima in città era rovente.
La notte ci fu una veglia di preghiera; ricordo le parole dal Capo Rabbino Elio Toaff, che tra l’altro aveva chiesto un inasprimento delle pene per i reati connessi all’antisemitismo, che furono di grande conforto per i presenti che riempirono il Tempio.
Tra noi infatti c’era grande sconforto e profonda indignazione. Ci sentivamo non solo criticati per quanto stava avvenendo in Medio Oriente, ma anche abbandonati dalle Istituzioni.
Per il giorno dopo fu proclamata una giornata di lutto e molti negozi a Roma rimasero chiusi; sulle serrande fu apposto un cartello con scritto: “chiuso per lutto” o “chiuso per strage”, per esprimere il nostro cordoglio. Tuttavia la rabbia non scendeva e la Comunità si chiuse in sé stessa.
Lunedì 11 ottobre fu indetta al Campidoglio una riunione straordinaria congiunta dei Consigli comunale, provinciale e regionale, per manifestare solidarietà alla Comunità ebraica. In quell’occasione fu data alla Comunità la possibilità di intervenire e l’architetto Bruno Zevi, a nome della Comunità, interpretando la sofferenza e lo sdegno di tutti noi, lanciò, con un memorabile discorso e con grande dignità, il suo atto di accusa al ministro degli Interni, al mondo cattolico, alla classe politica e sindacale, alla stampa, alla Rai ed ai moltissimi intellettuali che negli ultimi mesi avevano “invelenito l’atmosfera e creato un terreno fertile per l’antisemitismo”.
Le sue accuse, espresse con coraggio e fierezza, diedero a tutti noi la forza di rialzare la testa, e di superare i sensi di colpa per non essere stati capaci di evitare quanto era accaduto.
Martedì 12 ottobre, infine, si svolse il funerale del piccolo Stefano Gaj Taché. Parteciparono circa ventimila persone, il lungotevere antistante il Tempio era strapieno. Erano presenti il presidente della Repubblica Pertini, il presidente del Consiglio Spadolini e il sindaco Ugo Vetere. Il silenzio era assordante, non ci fu un solo fischio o una sola protesta. Il Capo Rabbino era stato molto chiaro, in un primo momento aveva sconsigliato al Presidente Pertini di partecipare alle onoranze funebri, perché, disse, non poteva garantire la sua incolumità. Cambiò idea solo dopo aver ricevuto una sua telefonata di accorata preghiera e richiesta di partecipare.
A quel punto il Rav pretese da tutti il rispetto per la figura istituzionale del Capo dello Stato. Nel silenzio assoluto in cui accogliemmo le sue parole, disse che l’indomani non avrebbe voluto sentire alcuna protesta, minacciando in caso contrario le proprie dimissioni. Tutto andò come il professor Toaff aveva chiesto.
Il giorno dopo riaprirono le scuole ebraiche ed i negozi; la vita lentamente tornò alla normalità.
Dopo 40 anni crediamo sia doveroso soffermarsi per riflettere su quanto accaduto. Questo volume vuole rappresentare uno strumento d’aiuto per una necessaria ricostruzione storica a beneficio delle nuove generazioni, perché non si dimentichi.
3 risposte
Ricostruzione precisa e puntuale, come sei tu caro Roberto. Con stima e affetto. Alberto Piperno
Il mio auspicio è che questo libro, che ricorda uno dei giorni più tragici della storia nazionale del ‘900 , entri nelle scuole e venga letto dai milioni di alunni al fine di insegnare i vari aspetti della politica, della socialità e della tolleranza tra popoli e religioni!!
Bravi, molto interessante, peccato che ancora non se ne parli molto.