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The Fabelmans. Quando il cinema ci permette di vedere

Nel suo film più intimo e autobiografico, Steven Spielberg ci parla di sé, del suo rapporto con la macchina da presa e della sua famiglia

Steven Spielberg

Già il titolo dell’ultimo film di Spielberg dovrebbe metterci nella prospettiva di cosa vedremo. Dichiaratamente autobiografico, The Fabelmans, sembrerebbe sulle prime rifugiarsi in un luogo intimo, dove tutto ha avuto inizio.

Questo movimento in utero dovrebbe quindi avere un connotato rassicurante, far approdare il film all’origine del mito, l’insorgere della passione per il cinema, quando da spettatori bambini tutto ci è sembrato gigantesco sullo schermo bianco, violato dalla luce. Materia del tut

la locandina del film. Sotto: alcune immagini del film

to vicina alla matrice fantastica e aperta alla meraviglia del cinema spielberghiano.

E invece il film ci porta altrove, in una sorta di approccio problematico all’esistenza stessa del cinema. Ne risulta un percorso coraggioso che doma l’ossessione per portarla all’essenza del vedere. Sì, perché il cinema può essere l’unica lente attraverso cui dare forma al mondo, come per il protagonista che dopo aver scoperto le potenzialità del mezzo cinematografico, girando remake di grandi classici in formato domestico, capisce che quell’obiettivo può essere rivolto verso la vita stessa.

Così, riprendendo la madre durante un camping, spinto dal padre a rallegrare la donna in un momento difficile, come fossimo in Blow Up di Antonioni, Sammy scopre che l’amore è erratico quanto il girare della pellicola. Tra le pieghe di quelle riprese si nasconde l’amore clandestino della madre per il miglior amico del padre. Probabilmente proprio questo momento rappresenta il fulcro del film.

Quando il cinema diventa una lente d’ingrandimento attraverso cui leggere l’animo umano. Infatti quella scoperta non porterà a una mera indagine, non sarà una prova indiziale, al contrario permetterà alla madre di Sammy di leggere dentro se stessa, e scoprire quell’amore grazie alla visione di quel girato, orchestrata dal figlio per metterla di fronte all’indicibile.

Nello straordinario film Yi-Yi di Edward Yang, il bambino protagonista prende a fotografare per giorni le nuche dei suoi parenti. Interpellato dai genitori risponde che fotografa le nuche per far vedere alle persone quello che non potranno mai vedere da soli. Ecco allora che il cinema si spoglia della dimensione soggettiva per diventare finalmente mondo, che sfugge alle intenzioni di un regista-demiurgo ma apre uno squarcio, un crepaccio dove tuffarsi senza più remore.

La madre di Sammy accetterà la sfida di tuffarsi mentre il bambino, ormai cresciuto, non potrà più fare a meno di quella vertigine. È l’accettazione del mistero, l’unica componente che negando la conoscenza dà senso alla vita. Sorprende che un regista grandiosamente tecnico, come Spielberg, creatore di minuziosi ed eloquenti storyboard, con questo film decida in fondo di perdersi.

Come giustamente ha notato il critico Emiliano Morreale il sospetto che Spielberg stia guardando a quel lato più oscuro del cinema si palesa nella scelta di far interpretare John Ford, il regista che nella scena finale funge da generatore di imprinting cinematografico, a David Lynch. Lynch qui diventa un simbolo, il segno del mistero stesso. The Fabelmans è allora un film che glorifica ciò che si nasconde tra due immagini, il fantasma che non si vede, che sta dietro lo schermo. Un Dybbuk, potremo dire, che infatti si palesa nella Yiddishkeit dello zio Boris, temuto parente, interpretato dal fantastico Judd Hirsch, che porta una ventata di anarchia. Un vero e proprio sconquasso, la necessità di fare i conti con l’energia misteriosa dell’arte, che rapisce l’artista rendendolo un posseduto.

Qui e sotto: alcune locandine dei film più famosi di Spielberg

Un vero e proprio gilgul in cui le anime degli artisti passati si impossessano del corpo di Sammy, consegnandolo alla schiatta degli artisti. C’è tanto di questo contro-mondo Yiddish nel film, una minoranza nella isolata minoranza ebraica della cattolica California in cui finisce Sammy per il trasferimento lavorativo del padre. Negli interstizi delle minoranze nasce però la capacità di dialogare se non di dare forma alla maggioranza. Ecco quindi Sammy fare un epico film in cui narra le gesta dello spaccone della scuola, che ancora una volta invece che cedere a quella gloriosa rappresentazione, capisce la sua miseria, dietro lo schermo, dove è stata confinata la sua ombra, il suo vero essere.

Spielberg, come in una rivoluzione copernicana, aggiusta letteralmente l’orizzonte del suo cinema (il finale lo rivela), abbracciando i suoi opposti, includendo nella sua visione gli autori “misterici” della sperimentazione. Proprio quando registi classici come lui sembrano non godere più della popolarità di un tempo, ecco che il cinema ancora una volta prende il sopravvento: “tutti i film nascono liberi e uguali” direbbe Bazin.

Film come mondi, irrimediabilmente distanti dai loro stessi autori.

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