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Il mio ricordo di Bruno Di Porto z”l

Bruno Di Porto (1933-2023), storico e studioso, è stato uno dei protagonisti di quella generazione di ebrei italiani che ricominciarono a vivere dopo la guerra e dopo la Shoah

Qui e sotto: Bruno Di Porto con alcuni suoi studenti alcuni decenni fa

Ho appreso della morte di Bruno Di Porto attraverso un amico comune, che me ne ha comunicato la notizia, pensando ne fossi già a conoscenza, in maniera immediata e diretta. E, involontariamente, al limite della ruvidezza. Con maggior tatto ho voluto dire di Bruno a mio padre, Giorgio Pacifici, che lo conosceva da più di sessant’anni. E, più esattamente, dall’epoca del Partito Repubblicano Italiano, nelle cui file entrambi avevano militato con incarichi di alto profilo. Sono tanti i ricordi, in un momento come questo, che affollano la mente. Scrivere è di solito un toccasana, perché aiuta a rimettere ordine in un fastello di carte dove per mesi -e senza alcun rispetto per le leggi dell’insiemistica- abbiamo riposto nel corso del tempo corrispondenza inevasa, lettere pubblicitarie, bozze di scritti da licenziare. Con Bruno ho parlato un’infinità di volte. In una delle prime mi rivolsi a lui, indirizzato proprio da mio padre (“ne dovresti parlare con Bruno”) all’epoca della mia -ahimè oggi lontanissima- tesi di laurea, che avevo deciso di svolgere sul matrimonio ebraico sotto la guida del mio amatissimo professore, poi vicepresidente della Corte Costituzionale, Francesco Guizzi. Ricordo che mi ero rivolto a lui con la formula d’uso riservata ai professori universitari, “chiarissimo professore”, e in cambio ne avevo ricevuto dopo pochi giorni una telefonata (i cellulari erano ancora di là da venire, e io parlavo mezzo arrampicato su un mobile tra la cucina e il tinello, dove mia mamma aveva fatto collocare l’apparecchio) con cui, scherzava, innanzitutto mi diffidava dal dargli del lei, e m’interdiceva l’uso di qualsiasi titolo accademico. “Chiamami Bruno”. Aveva risposto alla domanda formulata con grave incertezza nell’uso dei pronomi tu/lei: – Come devo chiamarla?

Qualche anno dopo l’avevo reincontrato a Milano al Disco Verde, la sala d’ aspetto riservata ai viaggiatori abituali del Freccia Rossa dell’epoca, il Pendolino.

Eravamo entrambi di corsa e pressati dai rispettivi impegni universitari. Io tornavo a Parigi, dove all’epoca stavo completando il mio dottorato di ricerca, e lui credo fosse a Milano per una conferenza. Entrambi avevamo con noi molto “bagaglio intellettuale” (libri, quaderni per appunti, lapis, evidenziatori), ma nessuno di noi era disponibile a staccare un foglio dal proprio notes, dove entrambi pretendevamo (credo a ragione) essere state vergate importanti e imprescindibili annotazioni determinanti per i nostri studi.

La signorina, che forse ci aveva sentito protestare la mancanza di anche un piccolo morceau de papier dove scrivere, e che veniva a rammentarmi del mio treno ormai quasi disposto sul binario di partenza, venne verso di noi con un nuovo blocco per annotazioni e un paio di penne. Così, su un foglio intestato del Club Freccia Verde, scrissi in maniera frettolosa una delega per Bruno, diretta a rappresentarmi in un’associazione cui entrambi appartenevamo.

Qualche tempo dopo lo ritrovai, senza saperlo tra gli invitati, un venerdì sera a Milano a casa di un amico dove, chissà perché, a me toccò di celebrare il kiddush (credo che il baal bait fosse affetto da una banale faringite). Io naturalmente mi schermii, adducendo che “il professor Di Porto è estremamente più qualificato di me” e Bruno rispose, col suo accento ormai reso toscano dopo molti anni di permanenza in quella regione: -’un se ne parla. Largo a’ giovani!

Poi, dopo la lettura, mi aveva detto in privata sede: -innanzi tutto bravo. Perché hai letto bene. E poi perché hai fatto due mizvot. Una perché santifichi le feste, e l’altra perché hai soccorso il padron di casa, che con la gola in fiamme oggi, a leggere, lo vedevo maluccio.

Ogni volta i nostri incontri, immancabilmente, si concludevano con un caloroso abbraccio, e l’invito da parte di Bruno a salutare “’l tu’ babbo”. E io con grande piacere salutavo “il babbo”, che di questi saluti era ben grato.

Bruno Di Porto in un’immagine più recente

Anni dopo, al momento di formare un panel qualificato di studiosi, per un volume di cui un’importante casa editrice nazionale mi aveva affidato la cura, lo avevo cercato. Era stato molto interessato al progetto, e mi aveva rivolto tante domande tutte pertinenti e interessanti. Poi, al termine della telefonata, mi aveva chiesto del tempo per rifletterci. Dopo qualche giorno era arrivata la risposta per mail. D’iniziare un nuovo progetto non se la sentiva, però non solo mi indicava una persona intelligente, colta, e qualificata, ma mi faceva tutti i suoi migliori auguri per la splendida riuscita del mio nuovo progetto.

Poi con Bruno c’era stato, in maniera intermittente, qualche breve scambio epistolare, via mail, in occasione dei Moadim, e saluti che di tanto in tanto a qualche amico comune affidava. Di Bruno Di Porto, oltre alla cultura, resta la simpatia, la curiosità, e le tante proposte intellettuali. E la modestia estrema con cui, ogni volta, si poneva di fronte alle persone. Per le quali aveva estrema considerazione. Insieme con lo studio e la preghiera. Ma la cosa importante che credo si debba sottolineare è l’ebraicità di Bruno. Un’ebraicità che ha permeato la sua intera esistenza, e senza considerare la quale non è possibile comprendere la sua personalità.

Una risposta

  1. Ho avuto l’onore e la fortuna di avere il Prof. Bruno di Porto insegnante di italiano e storia presso l’Istituto Tecnico Commerciale Duca Degli Abruzzi di Roma negli anni 1962 1963. E’ stato per me un esempio ispiratore in tanti momenti della vita. Così profondo il segno lasciato che mi attivai per incontrarlo di nuovo, il che avvenne presso il centro I Pitigliani durante una conferenza sulla Repubblica Romana del 1849 e in quella occasione ricevetti un regalo meraviglioso, mi ricordò una frase che avevo inserito in uno dei temi di italiano di allora. Lo seguii anche in occasione di un incontro interreligioso tra Ebrei, Valdesi, Protestanti. La sua è stata una ricerca costante della comprensione, del dialogo, di ricerca di punti di incontro nel rispetto della propria identità. Grazie Professore

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