Oggi posso rompere il silenzio su quei 343 giorni
Barbara Piattelli racconta Riflessi il suo sequestro, le conseguenze sulla sua vita, e perchè ha deciso solo adesso di parlarne
Barbara com’era la tua vita fino al giorno del sequestro?
Avevo 27 anni, una vita serena, due genitori e un fratello meravigliosi; lavoravo nell’azienda di famiglia. Aavevo un ragazzo affettuoso, Ariel, che poi è diventato mio marito.
Gli anni ’80 erano anni in cui i sequestri di persona a fini estorsivi erano frequenti. In casa vostra, vista la notorietà di tuo padre e della sua azienda, c’era timore? Avevate preso precauzioni?
Assolutamente no, il rischio di un sequestro era completamente al di fuori della nostra immaginazione. Da quello cha abbiamo capito è stato un errore di valutazione, siamo stati sovrastimati, hanno confuso la notorietà di mio padre con una ricchezza che non avevamo. Noi vivevamo del nostro lavoro, non avevamo beni al sole e non potevamo quindi immaginare di poter essere oggetto di un sequestro per ottenere un riscatto che non avremmo potuto pagare.
Puoi raccontarci che cosa accadde il giorno del sequestro?
Nel garage di casa, rientrata dal lavoro con mia madre, sono entrati i criminali che mi hanno presa violentemente facendomi uscire dalla mia auto e, strattonandomi, mi hanno spinto nella loro, buttando in terra mia madre con una pistola puntata. Da quel momento è iniziata la mia tragica esperienza. Dopo aver passato la notte nella loro auto, chiusi in un garage – credo mi avessero messo in testa un casco da moto al contrario per non farmi vedere – mi hanno spinto a salire su un’altra auto e con quella sono partita per un viaggio lunghissimo fino, ho capito in seguito, in Aspromonte. Fui sedata ma non persi mai conoscenza.
Come e quando hai capito di essere stata portata in Aspromonte?
Per dare la prova in vita mi portarono un giornale, dentro al quale c’erano le pagine della cronaca locale, così mi resi conto di dove mi trovassi, ma, per evitare che capissero che avevo capito, appallottolai immediatamente quei fogli.
Quanto durò il sequestro?
343 giorni interminabili.
Barbara, ti va parlare del sequestro?
Ormai sì, dopo aver contribuito a girare il documentario, mi sono sciolta e adesso ne riesco a parlare con tranquillità. Devi pensare che per tanti anni non ne avevo mai parlato con nessuno. Né mio padre, né mia madre, né mio marito, né nessun altro mi aveva mai, ripeto mai, chiesto nulla riguardo all’inferno di quell’anno ed io non ne avevo mai parlato.
Quindi il documentario, che tutti possono vedere su Rai Play, ti ha permesso di liberarti da un peso enorme?
Sì, il docu-film “343 giorni all’inferno”, di Vania Colasanti, che ringrazio di cuore, per aver capito il mio dramma ed essere entrata nella mia storia in modo delicato, ma incisivo, effettivamente, è stato liberatorio!
Quali sentimenti provi nei confronti dei tuoi sequestratori?
Non ho mai avuto risentimento verso i criminali che mi sorvegliavano, loro erano pura manovalanza, erano persone ignoranti e con colpe relative. I mandanti, invece, non sono mai stati cercati veramente; mi fa molta più rabbia l’assenza dello Stato perché è da questo che dovevo essere difesa e tutelata ed invece ho subito le maggiori ingiustizie. Pensa che sono stata interrogata una sola volta e mi sono state rivolte domande estremamente superficiali fatte più per dovere che per iniziare una vera e propria indagine. Se mi avessero chiesto cose circostanziate forse avrebbero potuto individuare qualcuno ma non l’hanno mai fatto. In seguito ho subito un’altra ingiustizia perché la mia domanda, per essere riconosciuta una vittima della criminalità organizzata di stampo mafioso, non è stata accolta dal Prefetto che me l’ha rigettata perché proposta dopo troppi anni dal fatto e perché non avevo subito ferite fisiche ma solo psicologiche, come se queste fossero meno gravi delle prime. Sono, però, fiduciosa perché proprio in questi giorni mi sono permessa di scrivere al Presidente della Repubblica per avere da Lui la possibilità di essere compresa tra le “vittime della criminalità organizzata”, ponendo rimedio, seppure tardivamente, a questa lunga ingiustizia. Credo che sia mio diritto essere considerata, anche dallo Stato, per quello che sono per tutti e cioè una vittima della criminalità organizzata.
Ci sono altri aspetti di questa storia che ancora non sei riuscita ad accettare?
C’è un’altra cosa che mi ha sempre provocato e mi provoca grande dolore, sempre a causa dello Stato assente. Poiché mio padre non aveva disponibilità delle somme richieste per pagare il riscatto e dovette chiederle in prestito alle banche alle quali nel tempo le ha restituito pagando interessi del 24% annui. La cosa più assurda è che quell’entrata, frutto di un finanziamento, fu considerata dall’Agenzia delle Entrate come un ricavo aziendale è su quello dovette pagare anche le tasse, come se fosse stato un ricavo aziendale. Al danno si è aggiunta anche la beffa perché in due occasioni la polizia ha trovato parte del riscatto una volta a Frascati ed una seconda a Reggio Calabria ma le banconote sono state tagliate e rese inutilizzabili, anziché essere restituite a mio padre. Anche in queste occasioni nessuna indagine fu condotta.
Come è cambiata la tua vita una volta tornata in libertà?
Per alcuni anni ho retto bene e li ho trascorsi come se nulla fosse stato. Poi ho avuto un tracollo psicologico e sono dovuta andare in terapia per 3/4 anni senza mai ricevere alcun aiuto dalla Stato. Poi la dottoressa, che mi aveva in cura, mi ha aiutato a raccontare e così con mio marito Ariel decidemmo di parlarne alle nostre figlie che fino a quel momento non avevano saputo nulla in quanto ancora bambine di nove e dodici anni. Nessuno, per fortuna, le aveva mai informate di quanto mi fosse accaduto. Una sera a cena dicemmo loro che volevamo raccontare una storia, loro ci chiesero se fosse bella o brutta e noi rispondemmo che si trattava di una brutta storia ma con un lieto fine. Anche per loro, ovviamente, fu un grosso dispiacere.
La presentazione del documentario ha riaperto ferite che credevi fossero rimarginate?
Sì, però, sono contenta. Mi fa piacere essere riuscita a condividere la mia esperienza anche con persone che non conoscevo. Ero gelosa di qualcosa che apparteneva solo a me ma era giusto condividerla, anche se nessuno può capire fino in fondo quali traumi io abbia subito.
Grazie Barbara per aver voluto condividere con i lettori di Riflessi una pessima esperienza ma che, come dicevi tu, giustamente, ha avuto un lieto fine. Poteva andare molto, molto peggio.
Vedi qui il docu-film sul rapimento di Barbara Piattelli