L’eredità di Mussolini? Non abbiamo bisogno di altri underdog
David Bidussa, nel suo ultimo libro su Mussolini, mette a fuoco la continuità culturale e politica tra il fascismo e molti apparati della Repubblica. Da questa eredità il paese ha bisogno di liberarsi per affrontare i cambiamenti in atto
Professor Bidussa, nel suo ultimo saggio (“Mussolini. Scritti e discorsi. 1904-1945”, Feltrinelli, 2022), lei si occupa degli scritti del duce, tra il 1904 e il 1945. Che idea si è fatto di Mussolini?
Secondo me Mussolini è una figura che rappresenta un individuo del tutto avulso dalla classe politica del tempo, un uomo che proviene da una realtà sociale e geografica quasi opposta a quella che aveva fatto il Risorgimento e l’Italia; direi quasi che Mussolini proviene da un’anti-Italia.
Cosa intende?
Mussolini è nato in Romagna, che a quel tempo era considerata una terra perduta, dove la mortalità e la povertà erano molto alte. Mussolini, nella prima fase di costruzione della sua figura, è un socialista antitaliano in questo senso; ad esempio è molto diverso da Turati. Bombacci non è antitaliano, Mussolini sì. Secondo me, questo lo ha portato a essere stato sempre animato da un sentimento di riscatto; potremmo dire che anche lui era un Underdog. In altre parole Mussolini proviene e rappresenta un modello di emarginazione sociale, quasi un disperato. Se vogliamo comprendere il prototipo di tale modello, credo che dovremmo guardare al mondo rurale e proletario rappresentato da Pierpaolo Pasolini.
Riprendendo gli studi di De Felice, per cui il fascismo nasce dal radicalismo di sinistra, e di Mosse, per cui un regime si basa innanzitutto sulla capacità di creare una macchina culturale, lei evidenzia come il fascismo fu soprattutto una macchina in cui prevaleva l’idea del maschio, elemento che accomuna destra e sinistra. Vorrei innanzitutto chiederle allora: l’autoritarismo nasce e si riconosce dalla forza del maschio sul genere femminile?
Il primo presupposto da cui il volume è nato era questo: se si decide di aprire il discorso sul le origini e i caratteri del fascismo, dobbiamo essere chiari su quello che cerchiamo e, per così dire, su cosa resta sul tavolo al termine della ricerca. Io non sono allievo di De Felice e non mi ha mai entusiasmato, ma dobbiamo confrontarci con i suoi studi. La discussione se abbia torto o ragione non mi interessa, ma occorre verificare cosa resta del suo laboratorio, se mi parla ancora, e cosa posso considerare come un dato ormai accertato e acquisito dei suoi studi. Dunque, io penso che sia molto interessante la sua ricerca sulle origini del fascismo, sulla cultura politica nazionale, sulla personalizzazione del potere. Poi però restano delle variabili estranee al laboratorio di De Felice e qui è importante il lavoro di G. L. Mosse.
Perché?
La peculiarità di Mosse è l’analisi delle culture che formano il profilo delle personalità politiche. Da questo punto di vista, ho sempre trovato in Mosse una risposta diversa da quella fornita da De Felice, anche se non necessariamente alternativa. Mosse infatti pensa che per studiare la storia non servono solo i documenti d’archivio, ma occorre servirsi di discipline anche lontane da quelle praticate dallo storico, come l’estetica, l’antropologia, la semiotica, l’analisi dei testi letterari. Di tutti i suoi studi, a vent’anni dalla morte resta importante non solo quello sul meccanismo di nazionalizzazione delle masse, ma soprattutto l’analisi su come operano e funzionano le ideologie del ‘900.
E che risultati ha dato questo studio?
Le ideologie del secolo scorso hanno avuto una funzione precisa dentro i corpi politici, sia a destra che a sinistra. La loro funzione è stata quella di costruire un soggetto politico. Da questa osservazione Mosse passa a domandarsi: quale tipo di società e di valori le varie ideologie vogliono costruire? Ossia: che tipo di valori e di immagini servono per costruire un’identità e un programma culturale in grado poi di costruire un sistema di potere? Se si parte da questo punto di osservazione allora bisogna riconoscere che le ideologie di destra e di sinistra nel ‘900 hanno costruito un programma culturale fondato su una certa immagine del maschio, e conseguentemente della donna. Mi sembra cioè che emerga una spaccatura di genere fondata sull’ideologia che esistano diverse caratteristiche tra il maschile e il femminile. Su questo modello si è costruita tutta la storia del Novecento.
E questo in che modo ci è utile, oggi?
Io credo che se vogliamo davvero immaginare un mondo nuovo, allora dovremmo cambiare questo modello di lettura dei rapporti fra uomo e donna. In alte parole, se il modello resta lo stesso, che sia una donna a guidare un paese non produrrà alcun risultato sul sistema, che resterà sostanzialmente identico.
Della premier parleremo tra poco. Adesso restiamo ancora su Mussolini. Dunque per lei questa è una chiave di lettura per comprendere il suo pensiero politico? Mussolini come un emarginato, un ribelle?
Questo suo aspetto mi fa pensare che il laboratorio di De Felice sia insufficiente a comprendere per intero l’ideologia di Mussolini. Lo studio sulle decisioni prese da Mussolini come capo del governo tra il 1922 e il 1943, effettuato da De Felice con attenzione, parte dal presupposto che Mussolini sia un uomo politico che agisce sulle basi delle informazioni che possiede e che legge il mondo sulla base di queste informazioni, in modo razionale. Questa lettura a mio avviso è insufficiente, perché omette di considerare che i dati, i documenti, le informazioni sulla base delle quali Mussolini agiva erano a sua volta filtrate dalla sua segreteria particolare. Era quella segreteria particolare, sottoposta a vari tensioni e conflitti interni, che contribuiva a costruire una certa visione del mondo di cui poi si serviva Mussolini. Se non si studia questo fenomeno, non si possono comprendere come vengono prese certe decisioni. In altre parole, lo studio della dinamica dei conflitti interni all’entourage di Mussolini e al sottogoverno fascista è fondamentale per comprendere l’operato del Duce.
Lei cita anche il filologo Klemperer, che tanto studiò la lingua del nazismo. Secondo questo autore, ogni rivoluzione da un lato afferma di combattere il passato, dall’altro cerca una legittimazione in esso. È un meccanismo che opera anche nei sistemi politici odierni? Dobbiamo sempre diffidare di chi si presenta come nuovo in politica? In altre parole: come possiamo distinguere l’esigenza di rinnovamento dal populismo?
Il populismo è una categoria di comunicazione politica e di costruzione di un immaginario politico dove è sempre fondamentale l’idea di mobilitazione. Voglio dire che nel populismo è fondamentale che ci sia un nemico contro cui schierarsi. Il populismo ha bisogno di nemici, non di amici. Quando poi va al governo, deve elaborare una proposta politica e decidere le priorità della propria azione. Si sviluppa allora una logica complottista, che ricalca sempre il modello del nemico. In altre parole, nei movimenti populisti non c’è un vero programma politico, o comunque questo è sempre subordinato all’idea del nemico e del complotto.
Secondo lei Giorgia Meloni è espressione di una politica populista?
2 risposte
Grazie per averci dato la possibilità di leggere e approfondire quanto dichiarato da Bidussa ,di cui comprerò immediatamente il libro,perché alla fine del articolo emerge chiaramente ,che anche tutti noi ,che non siamo degli storici,abbiamo capito poco e abbiamo pensato che bastava essere o sentirci antifascisti, senza avere negli strumenti per una analisi approfondita del significato e della radice da cui provengono fascismo e populismo.
Crediamo di sapere ma in realtà ,almeno per quanto mi riguarda,,so di non ho aver cercato abbastanza in un mondo che tende a ripetere sempre gli stessi sbagli,meravigliandoci, mentre come dice e dimostra Bidussa non solo non è certo semplice ,ma stiamo sbagliando tutto e non basta certo ricordare Berlinguer e avere nostalgia di un altro tempo,occorre cambiare ,il punto di partenza.
cui
David Bidussa, come sempre, ti porta a svuppare pensieri che a loro volta germogliano in idee che ti ronzano in testa zenza sosta.
Personalmente, essendo la mia modesta abitudine politica formata sul territorio e quindi affamata di strumenti comunicativi adatti a dar battaglia sul terreno “nemico” dei populismi, da sempre mi intriga l’idea l’idea di un progetto che osi sfidare il tema della solidarietà non più appellandosi alla crescita ma alla rinuncia, senza ovviamente prescindere dalla redistribuzione.
Inoltre qui Bidussa mette a fuoco una grande stranezza di questi ultimi decenni: quell'”aiutiamoli a casa loro” che ha assunto contenuti programmatici opposti a quelli che in Realtà si delineerebbero veramente se la questione fosse affrontata oltre la demagogia, con conseguenti radicali ribaltamenti di priorità nell’orientamento degli investimenti e quindi di soggetti della trasformazione e di referenti politici.
Riguardo alla sua stimolante lettura del fascismo a più piani ( non solo quello politico) e in fasi differenti , ho imparato ad apprezzarla, non senza iniziali diffidenze , nel suo lavoro da poco pubblicato, che spero verrà letto con attenzione, perchè secondo me può costituire una seria e moderna piattaforma dalla quale compiere passi avanti per uscire da una palude stagnante.