L’equilibrio, nel giornalismo, è tutto

Raffaele Genah, immigrato bambino da Tripoli, per oltre 30 anni ha lavorato in Rai, osservando a lungo la realtà italiana e internazionale da un punto di vista privilegiato: quello di vicedirettore del telegiornale italiano più seguito. A Riflessi racconta un pò della sua lunga esperienza

Raffaele, dal 30 giugno sei in pensione. Puoi descriverci in breve la tua carriera da giornalista?

Mi viene difficile immaginarmi in pensione… Credo che ogni giornalista – come del resto ogni lavoratore – conservi la propria visione della vita e dei fatti che accadono, indipendentemente dagli orari di ufficio. e anche la stessa voglia di leggerli e raccontarli, seppure con modalità diverse. E infatti ho iniziato a collaborare, con grande soddisfazione, con altre testate. In precedenza ho lavorato in Rai per quasi tutta la mia carriera, per oltre 35 anni, gli ultimi diciannove dei quali da vicedirettore del Tg1. Il mio ultimo incarico è stato Capo ufficio corrispondenza da Gerusalemme.

È difficile raccontare la realtà israeliana al pubblico italiano?

Certo è una realtà complessa. Per descriverla al meglio richiede la conoscenza profonda del quadro generale della regione: geopolitico, storico e culturale. Occorre tenere conto infatti della storia millenaria di quella terra, e che su di essa ci sono punti di vista particolari, ciascuno molto sensibile. Occorre insomma un’estrema attenzione da parte di chi scrive. Direi che per fare al meglio questo lavoro serve continua cura, impegno e sforzo.

E il pubblico come reagisce?

un’immagine dell’ultimo conflitto tra Israele e Hamas

Le persone a cui ci rivolgiamo sono diverse tra loro, con idee e aspettative altrettanto diverse. Sicuramente rispetto a qualche anno fa mi sembra ci sia una maggiore consapevolezza e attenzione rispetto a quella parte del mondo. questo è dovuto probabilmente sia a ragioni di natura politica, ma anche ad un modo diverso di comunicare, sia da parte di Israele che dai giornalisti, i quali hanno fatto la loro parte, raccontando la complessità e la molteplicità della realtà israeliana e di quella palestinese. Non si deve mai dimenticare che noi corrispondenti dobbiamo raccontare con uguale equilibrio anche ciò che accade nei territori dell’autonomia palestinese, entità distinta e molto diversa. Rientra nel nostro lavoro cercare di cogliere punti di colleganza tra realtà così lontane eppure così intrecciate e costrette a convivere. non sempre la cosa risulta facile.

Come si sceglie l’argomento sul quale realizzare un pezzo?

È il risultato di un flusso a doppio senso, per così dire, tra il giornalista e la redazione, e ovviamente il direttore. È chiaro che di fronte a certi fatti – come un conflitto – le diverse testate chiedono servizi tagliati sulla cronaca e l’immediatezza del momento; diversamente, allora spetta al corrispondente, se intuisce qualcosa che può essere interessante, proporlo alla testata. Sarà poi sempre il direttore a decidere. Nella mia carriera non mi sono mai sentito limitato, però è chiaro che non sempre sono riuscito a ottenere quello che volevo, per ragioni di spazio e di scelte editoriali. Del resto conosco bene queste dinamiche, avendole vissute tanti anni da vicedirettore.

Dall’alto della tua esperienza, come giudichi la qualità dell’informazione sul medio oriente in Italia?

una veduta del porto di Tel Aviv

Direi che c’è stata una evoluzione, e che uno sforzo è stato fatto: oggi Israele non è più percepita come una nazione il cui unico obbiettivo è la difesa di sé stessa, del suo popolo e della memoria del tragico passato – che occorre sempre aver presente – ma come un paese moderno, organizzato e proiettato verso il futuro: è la start up nation, un paese che corre e fa tendenza e vuole anticipare mode e tendenze future.

Nell’ultimo conflitto, come se l’è cavata secondo te l’informazione italiana?

Non mi è possibile dare un giudizio preciso. in quelle settimane ero impegnato a raccontare 24 ore su 24 quello che stava accadendo per quattro testate tv della Rai, tre radiofoniche (tra cui due all news), oltre a tutti i programmi di approfondimento di reti e testate. Avevo davvero poco tempo per una rassegna accurata degli altri giornali. Spero e immagino che tutti si siano attenuti alle regole fondamentali della nostra deontologia: raccontare i fatti con completezza offrendo la rappresentazione più vicina possibile alla realtà dei fatti. naturalmente non faticherei a credere se mi dicessero che ci siano state anche estremizzazioni da una parte e dall’altra.

Restiamo a Israele. Come sta reagendo alla pandemia da Covid?

Israele ha avuto un impatto molto attento nella fase iniziale. La partenza della campagna vaccinale è stata quasi un vanto nel mondo, un esempio da imitare a tutti, con una macchina organizzativa che ha funzionato perfettamente. Poi ci sono state però delle smagliature, che mi sembra si stiano ripetendo per la quarta ondata. Mi riferisco da un lato alla comunità di ultraortodossi, che hanno mantenuto aperte le scuole, in parte hanno evitato la vaccinazione, anche perché alcuni rabbini hanno negato fosse una necessità; e, da un altro lato, alla comunità araba, che all’inizio ha accolto con diffidenza l’invito a vaccinarsi. Il risultato è che se da una popolazione di circa 9,4 milioni di abitanti togliamo i minori di 12 anni, una parte di quel 12% di ortodossi poco attenti al tema delle vaccinazioni e parte della popolazione araba, alla fine si sono vaccinati più di sei milioni di cittadini e questo può comportare il rischio che il virus continui a circolare.

E sul piano politico, dove va Israele?

il governo Bennet

Se il nuovo governo Bennet riuscirà a governare con un solo voto di vantaggio è una previsione che non so fare. Sicuramente si tratta di un governo che ha molte novità oggettive. La prima e che dopo 12 anni non c’è più Netanyahu, la seconda è che non c’è più il Likud, e la terza è che non ci sono i partiti religiosi. Del resto, il governo si regge anche su altre novità: è la prima volta che governano partiti molto diversi: 3 di destra, 2 di centro, quelli della sinistra e anche 1 partito di spirazione islamica.

Una situazione un po’ simile a quella italiana

Un po’ si. Anche qui vale lo stesso: fare previsioni rischia di far perdere credibilità, per cui non ne faccio. Segnalo però che, per la prima volta, gioco forza, per effetto del Covid si sono ritrovati insieme partiti completamente diversi. Mi permetto di aggiungere che alla guida del governo italiano c’è una figura di valore assoluto in Europa e nel mondo; spero perciò che sia messo in condizione di lavorare, almeno sui temi importanti: dalla sanità, all’economia, alla ripresa alle riforme per modernizzare un paese rimasto bloccato per troppo anni.

Spaziamo un po’ più a est. Sul piano internazionale nuove ombre si addensano. Mi riferisco al ritiro realizzato in modo disastroso delle forze occidentali dall’Afghanistan.

Sì, l’occidente ha tanti errori da farsi perdonare. Se è vero che la presenza militare non poteva reggere ancora a lungo, il disimpegno andava però regolato in modo diverso. Invece il ritiro è stato raffazzonato, improvviso da parte degli Usa, che in più hanno tagliato fuori il governo afgano, che loro stessi sostenevano, durante gli accordi di Doha con i Talebani, così delegittimandolo ed esponendo il paese all’attuale situazione. Quel che è più grave è che non si sia stati capaci di valutare i tanti segnali mostrati dall’aggressività dei talebani, e la loro avanzata in poche ore. È stata davvero una débâcle.

E adesso?

il capo delegazione dei Talibani e il ministro degli esteri cinese, lo scorso marzo a Pechino

La Cina potrebbe dare un contributo ad istradare il nuovo regime dei talebani verso soluzioni meno estreme e violente. Però non mi faccio illusioni: su temi come le libertà, i diritti civili e in particolare quelli delle donne, nonché l’applicazione integrale della sharia, ci sono solo segnali negativi e peraltro prevedibili.

Per finire, mi piacerebbe conoscere qualcosa in più della tua storia personale. Tu sei un ebreo tripolino. Sei arrivato a Roma nel 1967?

Più esattamente sono a Roma del 1965, per ragioni familiari, arrivato poco prima della cacciata della intera nostra comunità da tripoli.

E la tua passione per il giornalismo quando è nata?

Non saprei dire esattamente. Forse l’ho sempre avuta. questo mondo ha sempre esercitato su di me una grande fascinazione se è vero che a Tripoli, mentre mio padre mi portava a scuola, gli chiedevo sempre di fermarsi e di lasciarmi osservare attraverso le grate le rotative del quotidiano locale. ho sempre pensato che il mio destino si fosse manifestato già in quel modo.

L’inserimento nella società italiana come è stato?

Certamente non è stato semplice, come capiterebbe a qualsiasi famiglia che si trovasse catapultata nel giro di 24 ore da un paese, o addirittura da un continente all’altro. Grazie però a mia madre e alle mie sorelle ce l’abbiamo fatta, anche dopo la morte prematura di mio padre.

Il tuo inserimento nella comunità di Roma, invece, è stato più facile?

Rav Elio Toaff (1915-2015)

Sì. Guarda io mi sento legato a tre comunità: il mondo ebraico tout court, la comunità di Roma che ci ha accolto con grande calore, e la comunità libica, la “mia” comunità di nascita dove sono le mie radici sono ben piantate. non amo fare preferenze, ma il tempio che frequento con maggiore assiduità è quello tripolino, dove ritrovo amici, suoni, emozioni della mia infanzia. devo però assolutamente spendere almeno due parole per ricordare due figure della comunità ebraica romana che hanno avuto grande influenza su di me.

Quali?

rav Vittorio Della Rocca (1933-2021)

Mi riferisco innanzitutto al grande rav, il prof. Elio Toaff che con saggezza, autorevolezza e, aggiungo, con sincero amore paterno ha guidato l’accoglienza e l’integrazione di due comunità – la romana e quella libica – diverse tra loro per storia e tradizioni. E poi il rav Chaim Vittorio Della Rocca, che è stato costantemente per me una guida e un punto di riferimento dal giorno del funerale di mio padre fino alla sua stessa morte.

Una risposta

  1. Raffaele Genah si conferma in questa intervista un personaggio di grande qualità…
    Restare per tanti anni vicecdirettore del TG 1 non è facile: l’equilibrio la precisione la.cultura e diciamo il modo di
    “porgere “ che sono evidenti in questa intervista spiegano il suo successo professionale.
    Cui aggiungo una simpatia personale & comunicativa di gentiluomo.

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