La sukkà: metafora delle urgenze della vita

Perché i maestri insegnano che la sukkà va costruita subito dopo Kippur? Come sappiamo, dietro ogni piccolo gesto c’è un insegnamento, come ci spiega Massimo Giuliani

La tradizione religiosa ebraica vuole che, appena terminata la celebrazione di Yom Kippur e subito dopo aver “rotto il digiuno”, si avvii la costruzione della sukkà, della capanna che servirà a osservare il precetto della festività di Sukkot (tradotta come Capanne o anche Tabernacoli, vetusto termine di origine latina che indica soltanto una ‘dimora’). Perché tanta fretta? Esausti da venticinque ore di preghiere e ascetismi fisici, perché precipitarsi a costruire la capanna, anche solo mettendo insieme qualche asse, dato che la festa comincia solo alcuni giorni dopo (“il quindicesimo giorno del settimo mese”)?

Sembrerà un dettaglio, ma la sapienza ebraica si nasconde nei dettagli. Tanta fretta è significativa del fatto che, davvero, occorre iniziare a vivere, a fare, a costruire… Reduci dai vertici di santità raggiunti a Kippur e resi euforici dal clima comunitario della solenne preghiera di Ne‘ilà, dei sefrè Torà a cui ci si è stretti in sinagoga, del sospirato suono conclusivo dello shofar… non pensiate, sembrano ammonire i maestri, che questa sia la “vita” ovvero la quotidianità e che possiate soffermarvi a lungo in questo (per alcuni poetico) non-tempo fatto di privazioni, astensione dai piaceri corporei, rinuncia agli aspetti ‘cosmetici’ che ci aiutano nella prosa dell’esistenza! Una vita senza cibo, buone bevande, sesso e profumi, non è vita.

Chiuso con Kippur il lungo percorso di teshuvà, avviato già nel mese di Elul, il minhag ebraico di avviare da subito la costruzione della capanna, sebbene dimora temporanea, è un monito a tornare ed immergersi nella vita, nelle cose da fare e a farle con gioia, con quella soddisfazione che proviamo quando facciamo cose e le facciamo bene. Non è un caso che “gioire” sia una mitzwà nella mitzwà di Sukkot: è la gioia intensa e consapevole di saperci attivi nel mondo, per costruirci la “dimora” – metafora polisemica – che va dal nostro nucleo familiare al mondo inteso come casa dell’umanità. La mortificazione e l’ascesi radicale non fanno parte dei valori fondamentali del giudaismo; godere i doni divini e lavorare per la conservazione, anzi per il miglioramento del mondo in cui viviamo, sì!

rav Abram Kook (1865-1935)

Già da qui si intuisce che la festa di Sukkot può e deve essere a più dimensioni: quella intima, della nostra famiglia e degli amici che ospiteremo, ma anche una dimensione universale. “Nelle sukkot dimorerete per sette giorni e ogni cittadino [kol ha-ezrach] in Israele risiederà nelle sukkot” è prescritto in Wayqrà/Levitico 23,42. Si noti: il versetto si apre e si chiude con l’espressone “nelle sukkot”. Rav Avraham Itzchaq Kook, primo rabbino capo ashkenzita della terra di Israele, sembra forzare il testo biblico quando commenta: “Se ne deduce che Israele, nella sua interezza, dovrebbe risiedere in una sola e medesina sukkà. Ma come far coabitare persone tanto diverse, che hanno idee e stili di vita così divergenti e contrapposti?”. Che sia una dmanda di incredibile attualità, è facile da vedere: come lo stato di Israele può oggi essere una grande sukkà, una dimora unica per tutti i suoi cittadini quasi fossero un sol corpo e una sola anima?

rav Leon Ashkenazi (Manitou), 1922-1996

Storicamente, il problema era già tutto inscritto nelle dinamiche teologico-politiche che contrapponevano lo yishuv di eretz Israel ai chalutzim. “Israele contro Israele”, per citare il provocatorio titolo di Limes del marzo scorso. Eppure, rimarcava rav Kook, dialogo e convivenza sono possibili se facciamo lo sforzo di sottomettere le passioni (ideologiche, teologiche o politiche che siano) a quel bene comune che è la ragione, terreno d’intesa tra le coscienze, l’unico che permette una comunicazione sincera tra gli esseri umani. Se pensiamo che rav Kook era, di suo, un poeta e un mistico, siamo sorpresi e restiamo increduli che il suo suggerimento sia stato… un ritorno alla ragione, a quel che Franz Rosenzweig negli stessi anni chiamava “un comune e sano intelletto”. Non basta che sia comune e non basta che sia sano, deve essere un intelletto, una ragione con entrambe le caratteristiche: comune (cioè condivisa) e sana (cioè integra, non malata).

frutti di cedro, per sukkot

Scrive il rabbino Shmuel Ouziel, allievo di Yehuda Léon Askénazi (Manitou) e interprete di quel grande filone di pensiero ebraico francese incline a esaltare l’universalità della fede ebraica: “La sukkà è il simbolo della ragione che unifica il genere umano. Tuttavia occorre evitare due pericoli: il primo è la tendenza a non vedere la realtà che in forme astratte, disincantate e pure… È il motivo per cui il tetto di fogliame della sukkà non può essere troppo alto [l’halakhà dà le misure precise].

Il secondo pericolo è quello di non vederla che in termini di interessi particolari, borghesemente autoreferenziali… Ecco perché la sukkà non può avere un tetto troppo basso. In entrambi i casi la sukkà non sarebbe kasher. L’influenza della ragione dunque non può che essere in chiaroscuro, come il gioco della luce nella sukkà. E occorre misurare il successo della ragione non sulla base di criteri astratti né di interessi di parte. Per creare e proteggere la ‘sukkà della ragione’ che fonderà il dialogo, occorrere infine stare aperti a tutte le sensibilità e a tutte le opinioni… L’assenza del quarto muro ci insegna proprio a quest’apertura”. E per rav Kook tale insegnamento non vale solo per la ‘dimora di Israele’ ma per il mondo tutto, la ‘dimora dell’umanità’. Si può ancora dubitare della saggezza di chi si affretta, alla fine di Kippur, e inizia a costruire la sukkà?

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