La musica ebraica italiana: una storia lunga secoli
Si è svolto pochi giorni fa alla Fondazione Levi di Venezia un convegno internazionale sulla musica ebraica italiana. Ne abbiamo parlato con Massimo Acanfora Torrefranca
Massimo, pochi giorni fa si è concluso un importante convegno a Venezia sulla musica ebraica: Suoni di una memoria frammentata. Repertori musicali ebraici in Italia. Possiamo spiegare ai lettori di Riflessi perché si è trattato di un incontro di una certa importanza ?
In effetti è stato un convegno molto innovativo. Grazie ai relatori, infatti, si è potuto dare uno sguardo ampio a tutto tondo sui retaggi musicali degli ebrei italiani, che compongono una tradizione molto frammentata, composita e pluralista. Questa è infatti una caratteristica della musica liturgica degli ebrei italiani, forse unica nella diaspora. È stato un convegno innovativo grazie soprattutto a due relazioni, quella di Seroussi e quella di Francesco Spagnolo, le quali insieme ci hanno dato la possibilità di avere un’immagine la più ampia e completa dell’argomento, in un settore così specialistico dove normalmente gli esperti si focalizzano solo su ambiti di ricerca limitati.
Certo. Seroussi ha dato un’immagine d’insieme innovativa, in quanto ha incrociato i dati contenuti nella stampa ebraica con una ricerca etnomusicologica, nonché con uno studio relativo ai testi pubblicati e alla discografia. In questo modo ha saputo mostrare come l’influenza della musica ebraica italiana è stata capace di mostrarsi anche in luoghi molto distanti dalla nostra penisola, come ad esempio l’Europa orientale. Francesco Spagnolo invece ha affrontato la questione della frammentarietà dei vari retaggi, sottolineando però tuttavia la loro continuità.
Si trattava di fare il punto sullo stato d’avanzamento del progetto Thesaurus, che ha ad oggetto le musiche degli ebrei italiani, ovvero la digitalizzazione e la catalogazione sistematica delle fonti musicali cosiddette primarie, ossia gli spartiti, le trascrizioni, le nuove composizioni, le registrazioni della musica ebraica liturgica e di quella non legata esclusivamente alla liturgia. È un progetto che, mi piace sottolineare, aveva già immaginato Tullia Zevi , che però non era stato possibile concretizzare negli anni passati. Ora finalmente il Thesaurus è avviato, grazie anche a collaborazioni importanti, come quella della Biblioteca Nazionale di Israele, in cui ha sede anche la Fonoteca Nazionale e in cui sono presenti importanti manoscritti; e grazie anche a Gabriele Mancuso e al Centro Leo Levi, il primo importante pioniere della ricerca sistematica della musica ebraica italiana fin dagli anni ’50, anche loro organizzatori dell’incontro veneziano.
Il motore dell’iniziativa, la sua anima principale, è certamente Enrico Fink, che è un ottimo ricercatore e un raffinato musicista. A tempo perso (si fa per dire) è anche il Presidente della Comunità di Firenze.
Ci si è soffermati ad esempio sul lascito musicale legato alla raccolta dei canti polifonici in lingua ebraica di Salomone Rossi pubblicata nel 1622/23, che ha avuto echi anche nelle comunità della Moravia del ‘700. Oppure si è evidenziato l’influenza della musica ebraica Italia ebraica italiana sulla composizione musicale di Benedetto Marcello, nella prima metà del ‘700, e di come cioè la musica liturgica ebraica abbia ispirato anche alcune composizioni nate in ambito cattolico, alcune delle quali ebbero notevole successo editoriale nel XVIII secolo. Infine, si è evidenziato come il repertorio musicale del Tempio Maggiore di Roma sia nato dalla confluenza di repertori musicali diversi, quelli tradizionali delle Cinque Scole che lo hanno preceduto e non poche composizioni ex novo.
In realtà è piuttosto difficile. Innanzitutto è difficile individuare l’esatto periodo in cui le varie opere sono state composte. La prima traccia di canti ebraici annotati appartengono a un ebreo convertito: Ovadia il normanno, contemporaneo di Maimonide. A parte questa prima traccia, come detto per il resto è molto difficile risalire al periodo originario in cui le musiche sono state scritte, perché c’è da considerare che le fonti primarie risalgono più o meno all’Ottocento e che le registrazioni sono successive, effettuate tutte nel XX e nel XXI secolo. Detto questo certamente possono essere individuati dai tratti comuni. Direi che innanzitutto la musica ebraica italiana dialoga fortemente, più che altrove, con la cultura musicale circostante, ovvero quella quella della maggioranza. In secondo luogo un’altra caratteristica è, per così dire, la differenza che sussiste fra le varie tradizioni. In pochissimi luoghi del mondo, prima della fine dell’Ottocento, è possibile trovare, ad esempio, musiche sefardite accanto a quelle aschenazite e a quelle di rito italiano, in un intreccio ove ciascun repertorio pur mantenendo la propria identità, influenza il gusto di quanti praticano una tradizione diversa.
Direi di no. Tieni conto che anche nel resto d’Europa gli ebrei sono stati a lungo separati dal resto della popolazione, ma questo non è stato mai un impedimento assoluto. In Europa e in Italia gli ebrei, come il resto della popolazione, si muoveva e si spostava. Alcune comunità, ad esempio, come quelle di Padova, Ferrara, Mantova e Venezia, potevano utilizzare le vie acquatiche per scambi reciproci. In generale direi che l’obbligo di vivere dentro i ghetti produsse l’effetto di aumentare la curiosità di ciascuna comunità verso quel che avveniva nelle altre. Inoltre anche compositori cristiani sono stati influenzati dalla musica ebraica italiana, come il caso a cui accennavo prima di Benedetto Marcello.
A partire dalla fine del ‘700, per chi aveva buon orecchio e buone capacità musicali, certamente l’influenza del mondo operistico si sente in modo abbastanza forte. Tieni anche conto che fino all’inizio del ‘900 la figura del chazan, oggi così diffusa, nelle comunità ebraiche italiane era praticamente sconosciuta. Quindi chiunque poteva esercitarsi nel canto e essere influenzato da quel che ascoltava al di fuori della comunità. Solo più tardi, con la progressiva emancipazione degli ebrei italiani, nasce la figura del cantore professionalizzato.
Direi che in Italia prevale soprattutto la ricerca e lo studio del nostro repertorio, riproposto in concerti e studi. Si tende cioè a riscoprire quello che già c’è o c’era, più che scrivere nuova musica. Nelle piccole comunità esistono musiche del tutto particolari che si sta cercando di rivalutare. In generale, invece, la musica ebraica conosce in continuazione nuove sperimentazioni. Uno dei metodi principali è sempre stato il il cosiddetto contrafactum: si prendeva una melodia nata in un contesto estraneo alla comunità ebraica e la si riadattava, ad esempio, per musicare un Salmo.