La guerra a Gaza vista da parte cattolica
Lucia Capuzzi è inviata per “Avvenire”, il quotidiano dei vescovi italiani. A lei Riflessi ha chiesto un punto di vista cattolico sul conflitto
Lucia, al settimo mese di guerra, come è vissuto il conflitto a Gerusalemme?
Gerusalemme è una città meravigliosa che vive il momento attuale in modo dicotomico. Da una parte la città appare deserta di pellegrini e di turisti, il cosiddetto terzo Popolo della Terra Santa; è una situazione che fa molto effetto. Dall’altra parte, la vita in città, come nel resto di Israele, ha ripreso una sua anomala normalità, dopo il trauma del 7 ottobre. Le persone hanno ripreso a uscire, all’inizio nessuno pensava di trovarsi di fronte a una guerra così lunga, e dunque ora occorre fare i conti con la vita quotidiana. La zona calda del paese è naturalmente a sud, a contatto con la Striscia di Gaza, dove ancora oggi circa 200.000 israeliani sono sfollati; e a nord, al confine con il Libano, dove si sentono quotidianamente gli effetti di un conflitto latente. Il resto del paese vive questa guerra in modo indiretto. Diversa è poi la condizione dei territori in Cisgiordania. Con il blocco dei permessi scattato subito dopo il 7 ottobre, molti palestinesi hanno perso il lavoro, e oggi la crisi economica è molto forte; ovviamente, le immagini che arrivano da Gaza hanno poi un impatto fortissimo sulla popolazione.
Puoi descrivere meglio gli effetti della guerra sul flusso turistico religioso?
Al momento, come ti dicevo, i turisti sono praticamente scomparsi da Gerusalemme e dal resto del paese. Durante la Pasqua cristiana si è registrato il primo viaggio organizzato dall’Opera romana pellegrinaggi dal 7 ottobre. Era stata annunciata la ripresa di due viaggi al mese, ma non è certo che ciò si possa verificare. È incredibile quanto sia vuota a Gerusalemme in questo periodo. Al Santo sepolcro, dove normalmente occorre attendere alcune ore di fila per accedere, ora non c’è nessuno, così come ai Getsemani. Questo comporta anche una forte crisi economica. Nella città vecchia sono ormai tantissimi i negozi di souvenir chiusi, così come a Nazareth e a Betlemme. Il mercato attorno alla basilica della Natività è chiuso, chiusi sono anche gli hotel, mentre solo un paio di ristoranti restano ancora aperti. Naturalmente dentro Gerusalemme non c’è un reale pericolo per i pellegrini, tuttavia la guerra in corso li scoraggia, anche perché probabilmente c’è un problema legato agli aspetti assicurativi.
Qual è, secondo la tua percezione, l’effetto che il conflitto sta producendo su israeliani e palestinesi?
Direi che c’è stata un’evoluzione nel vivere questo conflitto sia da parte della società israeliana che da quella palestinese. Subito dopo l’attacco di Hamas in Israele è stato enorme il trauma: per i morti subiti, per le centinaia di ostaggi, per la violazione del territorio israeliano e la distruzione di molti kibbutzim. Dunque gran parte dell’opinione pubblica sosteneva l’azione militare a Gaza. La società palestinese, da parte sua, sull’onda dell’azione compiuta da Hamas, capace di rompere l’assedio di Gaza, risultava piuttosto galvanizzata.
E oggi?
Ora, a distanza di mesi, mi sembra che la società israeliana si renda sempre più conto che la guerra non abbia prospettive chiare, e che neppure il suo andamento assicuri la sicurezza per Israele. Molti accusano Netanyahu di essere guidato più da un interesse personale che da quello a tutela del Paese: tutto questo provoca un enorme stanchezza, perché i soldati muoiono, perché le immagini di Gaza e della difficoltà di fornire aiuti alla popolazione non lasciano indifferenti la società civile, come è stato evidenziato con la grande manifestazione di alcune settimane fa a Gerusalemme, dove oltre 100.000 persone si sono riunite per chiedere le dimissioni di Netanyahu, allo slogan “Netanyahu tu sei leader tu sei responsabile”, intendendo della fatti del 7 ottobre. Anche la società palestinese ha mutato la sua percezione del conflitto. Nonostante infatti i numerosi ripetuti appelli di Hamas alla jihad, al di là di sporadici episodi, certo anche grazie al controllo capillare mantenuto da Israele, è significativo che non ci sia stata alcuna sollevazione popolare da parte degli abitanti della Cisgiordania. Forse anche questo è il segno per rendersi conto che la violenza non porta ad alcun risultato e che anzi le conseguenze possono essere negative per i propri interessi.
Negli ultimi mesi è affiorato in Israele un tema delicato: quello dell’intolleranza registrata da parte di alcune frange di ebrei ultraortodossi verso i cristiani che vivono in Israele. È un problema avvertito nel paese?
Direi che il problema è che queste frange ultraortodosse sono ostili e aggressive verso chiunque non faccia parte del loro gruppo: innanzitutto i giornalisti, poi i pellegrini, i turisti, ma anche verso gli altri ebrei più laici. Questa aggressività si manifesta, ad esempio, nella pretesa di avere un esclusivo accesso ai luoghi sacri, per cui quando si percepisce la presenza di qualcuno diverso dal loro gruppo si determina una frizione, come ti dicevo anche con il resto della popolazione israeliana. Tale frizione può arrivare al lancio di pietre, oppure allo sputo nei confronti dei pellegrini. Purtroppo queste frange estremiste rappresentano un problema crescente non tanto per chi subisce tali oltraggi, ma soprattutto per la società israeliana, in quanto vengono appoggiate di fatto dal governo di destra.
La realtà è che tali estremisti si sentono legittimati ad agire pubblicamente perché troppe volte le forze dell’ordine non intervengono, e ciò produce un aumento della tensione, la sensazione di una frizione perenne. Tutto ciò ha una ripercussione anche sul piano politico: è evidente che le parti più estremiste della società israeliana stanno prendendo spazio anche nella politica israeliana, contribuendo ad una perenne destabilizzazione. Non è un caso che i ministri più radicali spingano per non uscire dalla guerra e per continuarla ad ogni costo, in quanto sostengono una visione esclusiva della Palestina storica, rivendicandone il possesso per intero.
Vorrei provare ad allargare lo sguardo anche oltre Israele, rimanendo nell’area. Qual è la situazione di vita dei cristiani nei paesi arabi oggi?
Non è possibile generalizzare questo tema, ma occorre distinguere da paese a paese, anche perché stiamo parlando di un’area geografica molto ampia. Se, ad esempio, ci riferiamo alla Giordania o al Libano, dove in entrambi i paesi è presente una minoranza cristiana, direi che i rapporti con il resto della società sono relativamente sereni, tranne certo i momenti più conflittuali, in cui l’appartenenza religiosa è letta anche in chiave etnica. Al contrario, nei paesi con presenza jihadista, come l’Iraq, dove non è tollerata la libertà di culto, si sono registrati massacri. In tali aree, attraversate da conflitti endemici, la situazione effettivamente è molto difficile, tanto più per i cristiani che rappresentano una minoranza e, come tutte le minoranze, subiscono maggiormente i momenti di tensione.
La posizione del pontefice più volte espressa in questi mesi, a favore di una soluzione pacifica a Gaza e in Israele, così come del resto in Ucraina, a volte, per come formulata, ha suscitato reazioni risentite da parte del governo israeliano. Qual è la posizione della Chiesa cattolica sul conflitto a Gaza?
A me non meraviglia che gli appelli del pontefice contrarino l’Ucraina, la Russia, e anche Israele. Non mi meraviglia perché Papa Francesco è costante nel suo appello ad abbandonare la logica del conflitto, ad andare oltre la logica di chi combatte. È ovvio dunque che un appello al cessate il fuoco, sempre accompagnato dalla richiesta del rilascio degli ostaggi israeliani, irriti le parti in causa. In generale, la posizione di Papa Francesco e chiara: la guerra, ogni guerra, non è ammissibile, perché non risolve mai i problemi per cui nasce. Del resto, 75 anni di conflitto in Medio Oriente dimostrano la verità di questa posizione. Naturalmente non voglio sottovalutare la complessità della soluzione, ma è evidente che per la guerra a Gaza il Vaticano chiede un cessate il fuoco permanente e una risoluzione della controversia in chiave politica. La necessità di arrivare alla creazione di due Stati è appunto una soluzione politica e non militare.
Alle prossime elezioni europee si avanzano alcune formazioni politiche chiaramente schierate per la pace senza condizioni a Gaza e in Ucraina penso al Movimento 5 stelle, ma anche al partito che sta tentando di lanciare Michele Santoro. Il PD candida inoltre Marco Tarquinio, ex direttore del tuo giornale. Potremmo definirle “le truppe del papa”?
Le figure che tu citavi sono molto diverse. io conosco Marco Tarquinio, è stato il mio direttore all’Avvenire, e posso garantire che sarebbe una voce del mondo cattolico molto importante, che certo si riconosce in tutto nel magistero di Papa Francesco. In generale, le parole di Papa Francesco sono rivolte a tutti, ciascuno può prenderne quello che vuole, questo certo non significa che chi ne sposa la posizione sul conflitto in Israele poi faccia suo in pieno l’intero magistero papale. Per quanto riguarda gli altri movimenti politici che citavi, mi sembra evidente che tale identificazione non ci sia. Detto questo, ritengo che sia importante poter portare In Parlamento europeo posizioni che diano voce alla pace. Al di là delle parole del Papa, della sensibilità e della fede religiosa di ciascuno, credo sia ormai urgente che l’Europa riscopra le radici per cui è stata creata dopo il secondo conflitto mondiale: per non rivivere più una situazione di guerra. Oggi, purtroppo, la guerra sembra riaffacciarsi anche nell’orizzonte europeo. E questo mi preoccupa.