La casa dei catecumeni, storia di conversioni forzate
Il film “Rapito” ha riportato d’attualità la storia della casa dei catecumeni. Di cosa si trattava? Ne abbiamo parlato con un esperto
Professor Al Kalak, il film “Rapito” ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica la vicenda delle conversioni forzate al cattolicesimo. Possiamo innanzitutto definire il periodo storico in cui queste furono effettuate dalla chiesa cattolica?
Tali conversioni, per quello che le fonti ci restituiscono, sono un fenomeno che, di fatto, ha il suo sviluppo principale dal tardo medioevo e per tutta l’età moderna. Con l’Ottocento il fenomeno si fa decisamente meno frequente, almeno in Italia; ma proprio per questo casi come quello di cui racconta il film furono più clamorosi, proprio perché ‘eccezionali’.
Si conosce, seppure per approssimazione, il numero dei bambini coinvolti?
Di fatto stime quantitative su tutta la popolazione ebraica sono difficili, soprattutto per la mancanza di fonti esaurienti e, in alcuni casi, persino di una quantificazione degli stessi nuclei ebraici. Quello che osserviamo è che raramente i bambini da convertire sono intesi dalle autorità cattoliche in modo “isolato”: essi sono piuttosto parte di un tentativo di convertire nuclei familiari più ampi e sono moltissimi i casi in cui sono gli stessi parenti (nonni, zii o fratelli) ad acconsentire al battesimo dei più piccoli anche senza il consenso dei genitori. Di solito è questo l’innesco, il “pretesto”, che consente alle autorità cattoliche di intervenire per rivendicare il battesimo di un minore ebreo.
Anche se alla nostra sensibilità può apparire strano, convertirsi era spesso un modo per sopravvivere. Passare da un contesto minoritario a una maggioritario rappresentava per molti ebrei che vivevano ai margini della società, un mezzo per fronteggiare la miseria.
Sappiamo tuttavia che, se il profilo del “convertito” è perlopiù quello di un personaggio in difficoltà economica, l’incidenza delle conversioni sulle comunità fu minima (talvolta quasi irrisoria). Il valore delle conversioni stava soprattutto nel loro portato simbolico: diveniva una manifestazione – celebrata, ricercata e ostentata – della superiorità della maggioranza cristiana sulla minoranza ebraica.
Le conversioni forzate riguardarono solo bambini, o anche adulti e interi nuclei familiari?
Come dicevo, la conversione – indotta dalla povertà o forzata – si concentrava soprattutto sui nuclei familiari. Lo schema dell’“offerta” dei bambini alle autorità cattoliche perché li battezzassero poteva variare: a volte era un genitore che, una volta convertito, dava il proprio consenso al battesimo del figlio senza l’assenso dell’altro genitore. A volte, erano i nonni a offrire i nipoti, e così via. Tutto questo produceva una sorta di effetto-domino, per cui, con dinamiche di volta in volta diverse, l’intero nucleo familiare finiva per convertirsi.
Nel film abbiamo potuto vedere come per i bambini sottratti alle famiglie ebraiche ci fosse una sede apposita dove erano destinati e indottrinati. Ci può parlare di questo istituto?
Sì, si tratta delle Casa dei catecumeni (cioè dei non-cattolici che si preparano al battesimo). In verità, non era un istituto pensato solo per gli ebrei da battezzare: prevalentemente ospitarono altri soggetti, in particolare protestanti e musulmani (si pensi ai prigionieri e agli schiavi).
Come si svolgeva la vita nella casa dei catecumeni?
Idealmente, chi veniva da un’altra religione vi si doveva trattenere per quaranta giorni e ricevere i rudimenti della fede. La regola principale era l’isolamento: nessuno doveva avere contatti con l’esterno poiché si temeva che gli ex-correligionari potessero convincere il catecumeno a desistere (spesso capitò). Un sacerdote, a volte assistito da una confraternita, provvedeva alla formazione del catecumeno e prima del battesimo ne verificava la preparazione. Chi entrava nella Casa dei catecumeni riceveva un sussidio (ecco perché molti poveri e individui marginali accettarono la conversione). Anche dopo il battesimo, la Casa continuava a erogare una piccola pensione per sostenere i convertiti che aveva assistito.
Per il caso Mortara ci fu un movimento d’opinione che si diffuse in tutta Europa per il ritorno di Edgardo Mortara a casa, seppure senza esito. Si conoscono altri casi simili?
Il caso Mortara fu certamente eccezionale. E il clamore che suscitò fu determinato in gran parte dal contesto in cui si collocò: il potere del papato e della Chiesa era in caduta libera; il Risorgimento contestava fortemente la sovranità temporale dei pontefici; e la conversione forzata di Mortara fu come un “detonatore”: dimostrava l’assurdità di alcune pretese dei papi e della religione cattolica e la loro inattualità rispetto a un contesto dove si andavano affermando diritti come la libertà religiosa (o almeno la tolleranza) e la progressiva emancipazione dello Stato dalla religione. Certamente il caso Mortara non fu diverso da altri casi avvenuti, per esempio, nel Settecento: anche allora le comunità ebraiche protestarono e molti si mossero in difesa dei diritti dei bambini e dei genitori a cui furono strappati. Ma i tempi erano molto diversi, sebbene non così distanti nel tempo.
Quando fu chiusa la casa dei catecumeni?
Può sorprendere, ma l’istituto della Casa dei catecumeni restò ancora attiva in molte realtà fino alla metà del Novecento. Abbiamo tracce di sussidi pagati ai convertiti anche fino agli anni Quaranta. Poi, lentamente, le Case esaurirono il loro percorso storico e la Chiesa stessa cambiò il suo approccio al tema della conversione.
Fino a quando furono praticati le conversioni forzate?
Personalmente non parlerei in modo estensivo di conversioni forzate, ma piuttosto di conversioni indotte: naturalmente approfittare delle condizioni di marginalità di qualcuno per “incentivarne” la conversione non è più nobile che convertirlo forzatamente. Tuttavia, enfatizzare il solo elemento coercitivo non permette di comprendere il meccanismo su cui puntava la Chiesa per favorire, di fatto, le conversioni. In questo senso le conversioni indotte furono un fenomeno di lungo periodo, mentre l’uso della forza – in modo manifesto e ostentato come nel caso Mortara – fu un’eccezione. Tale strumento era una minaccia sempre attiva che costituiva più un elemento nei rapporti di forza tra Chiesa e minoranza ebraica, piuttosto che nel percorso di conversione degli individui.
La chiesa ha mai espresso una posizione ufficiale sulla sua politica?
Direi che oggi, quantomeno dal concilio Vaticano II in poi, la libertà di coscienza sia un paletto invalicabile. Da un lato per l’ovvia ragione che una conversione non sincera non ha alcun valore; dall’altro perché il rispetto della coscienza individuale occupa, anche per la dottrina ufficiale, un posto decisamente maggiore rispetto al passato.
Va poi ricordato che la Chiesa ha ormai condannato ogni forma di coercizione, come ha dichiarato dapprima Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo del 2000, con la sua richiesta di scuse per l’operato dell’Inquisizione e per le violenze perpetrate in nome della fede; e come manifestato, con riguardo al mondo ebraico, dai ripetuti incontri interreligiosi che mirano a superare un rapporto di subordinazione per impostare una relazione paritetica improntata al rispetto.
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