Israele è un paese diviso
A tre mesi dalle elezioni, il nuovo governo di Netanyhau deve affrontare divisioni interne e una forte opposizione sociale, mentre la violenza palestinese rischia di nuovo di esplodere. Abbiamo chiesto a Sergio Della Pergola di aiutarci a descrivere la realtà del paese
Professor Della Pergola possiamo aiutare i lettori di Riflessi a comprendere qual è la situazione politica in Israele, a tre mesi dal voto?
Innanzitutto direi che quelle dello scorso 1° novembre sono state le quinte elezioni negli ultimi due anni, il che dimostra che c’è sostanzialmente ancora uno stallo politico nel paese.
Eppure, a differenza delle altre volte, oggi c’è un governo che può contare su una maggioranza stabile: 64 seggi contro 56.
Questo argomento, utilizzato dai vincitori, non evidenzia a sufficienza, secondo me, che oltre ai seggi occorre contare anche i voti. Se noi guardiamo i voti, allora scopriremo che i partiti dell’attuale coalizione hanno ottenuto il 48% delle preferenze, il che significa che oltre la metà, il 52%, sono voti andati altrove. Il risultato, tradotto in seggi, ha portato a premiare la coalizione di destra a causa della legge elettorale, che prevede uno sbarramento del 3,25% per poter entrare nella Knesset. Alcuni partiti – in particolare due: il Meretz e Ballad, quest’ultimo degli ultranazionalisti arabi – non hanno superato tale soglia, il che ha significato disperdere ben 8 seggi, che nel gioco della redistribuzione hanno premiato la coalizione di destra. Se i due partiti avessero superato la soglia di sbarramento, il risultato sarebbe stato di nuovo una totale parità: 60 a 60. Il fiasco elettorale è tutto da imputare a dirigenti di partito euforici e incapaci. Ma le conseguenze sono profonde per l’intero paese.
Ci può descrivere la geografia a seguito del voto?
La coalizione vincente è formata da quattro partiti di cui il Likud è il principale. Tuttavia c’è da dire che il partito di Netanyahu ha ottenuto 32 seggi, il che significa che, all’interno della coalizione, non ha la maggioranza. Questo ha comportato che Netanyahu dal giorno successivo al voto si è trovato nella difficilissima situazione di dover mediare con gli altri partiti, i cui rappresentanti hanno preso a ricattarlo costantemente, obbligandolo a cedere su ogni richiesta.
Prima di entrare nel dettaglio del governo, ci può aiutare a comprendere chi sono gli altri alleati del premier?
Degli altri partiti che sostengono il governo, un forte successo è stato raggiunto dal Sionismo religioso, in realtà composto da tre tronconi. Il primo è il partito nazionale religioso, spostato su posizioni molto di destra, fortissimo in Giudea e Samaria, guidato da Bezalel Smutrich. Questo partito ha di fatto ereditato buona parte dei voti che, nella legislatura precedente, erano stati dati al partito di Naftali Bennett, ormai completamente dissolto. La seconda ala è guidata da Itamar Ben Gvir, noto seguace di rav Kahana, a sua volta messo fuorilegge in passato per le sue posizioni estremiste. In questa e nella precedente tornata la commissione elettorale che deve esprimersi sull’ammissibilità dei partiti al voto, ha ritenuto invece di ammettere il partito di Ben Gvir, nonostante sia la continuazione del kahanismo. Dietro il sapiente suggerimento di Netanyahu, Smutrich e Ben Gvir si sono uniti in una coalizione, il che ha consentito loro non solo di superare la soglia di sbarramento ma ottenere ben 14 seggi. Infine dobbiamo ricordare l’ultimo piccolo troncone, guidato da rav Tau, un personaggio controverso, in passato accusato di molestie sessuali, che si colloca su posizioni ancora più radicali degli altri due, sostenendo idee razziste, antifemministe ed omofobe. Grazie alla sua incorporazione con gli altri due, questo partito ha ottenuto 1 seggio.
C’è poi l’altra forza principale che sostiene Netanyahu, rappresentata dai partiti Haredim: quello sefardita con 11 seggi, guidato da Aryeh Deri, e quello askenazita, Yahadut HaTorà, a sua volta però diviso in due, in quanto composto da Agudat Israel, una formazione composita di varie correnti chassidiche, e da Deghel HaTorah, sotto cui si riconoscono i Mitnagdim lituani. Anche questi due tronconi si sono uniti, ottenendo 7 seggi (correndo separati, come invece hanno fatto i Laburisti e Meretz, ne avrebbero ottenuti 0). Il risultato complessivo è che oggi in Israele il governo esprime una coalizione di destra, nazionalista-Haredi, la più estrema che abbia mai governato il paese. Sono uomini (e solo 9 donne su 64 deputati eletti) caratterizzati da un forte culto della personalità nei confronti del leader Benjamin Netanyahu, che appoggiano incondizionatamente gli insediamenti in Giudea e Samaria, dalla mentalità clericale, che promuovono un ebraismo molto segregato, contrario alla modernità, e ostile nei confronti del mondo esterno.
Eppure l’esito del voto, con il paese ha spaccato a metà, avrebbe dovuto consigliare maggiore prudenza ai vincitori.
Il che non è successo. Dal giorno successivo al voto i vincitori non hanno voluto riconoscere questa spaccatura e hanno anzi dichiarato di aver ottenuto un grande trionfo, conseguentemente hanno annunciato la volontà di effettuare grandi cambiamenti nella struttura dello Stato, cancellando tutto quanto fatto del governo uscente di Bennett-Lapid.
Proviamo a vedere meglio. Alla prova dei fatti, come si sta comportando questa coalizione?
Benché Netanyahu avesse dichiarato trionfalmente che avrebbe formato il governo in meno di una settimana, ha dovuto subire una trattativa durata quasi due mesi, perché, come ho detto, l’esito del voto lo ha reso ricattabile fino all’osso. Il risultato è stato un aumento spropositato del numero dei ministri, 32 ossia la metà dei deputati eletti. È stata inventata una pletora di compiti inutili e ridondanti anche nelle posizioni chiave: abbiamo così due persone a dividersi la difesa, tre persone a dividersi gli esteri, quattro all’istruzione, due ai servizi sociali. In questo modo questo governo è il contrario dell’efficienza, perché al suo interno si creano costantemente profondi conflitti di interesse, che obbligano Netanyahu a continue mediazioni. O meglio: divide et impera.
Possiamo fare qualche esempio?
Prendiamo la difesa. Da sempre, il ministro della Difesa governa la regione centrale, la quale è responsabile anche dei territori della Giudea e della Samaria. In questo nuovo governo, al contrario, il ministro Gallant, un generale eletto con il Likud, persona certamente competente, ha dovuto cedere il governo della regione centrale a Smutrich, il quale ha così la competenza di gestire i Territori, pur avendo fatto solo pochi mesi di servizio militare seduto in un ufficio legale. Alcuni giorni fa, ad esempio, è nato un nuovo insediamento illegale: Gallant ha ordinato di smantellarlo, ma Smutrich ha dichiarato il contrario. Netanyahu, in evidente difficoltà, per il momento ha dato ragione a Gallant, ma non è detto che più avanti non ceda all’altro. Il risultato è una totale incertezza nella linea di comando. La stessa cosa si è ripetuta nell’affidare il Ministero della Polizia a Ben Gvir, riformato all’atto dell’arruolamento, arrestato dalla polizia oltre 50 volte per disturbo dell’ordine pubblico, e che ha ancora molte cause pendenti. Potremmo dire, con una battuta, che un uomo ricercato dalla polizia è attualmente al comando della stessa. Ben Gvir ha chiesto di comandare personalmente la polizia militare che opera nei territori. Quindi in teoria i comandanti sono tre. Per non parlare delle altre soluzioni escogitate solo per accontentare la fame di posti dei partiti della coalizione. Altri compromessi si sono realizzati in altri dicasteri.
Cioè?
Il ministro delle comunicazioni, Kari, anche lui del Likud, ha dichiarato di voler mettere mano e disarticolare l’Autorità delle trasmissioni, KAN, l’equivalente israeliano della RAI o della BBC, indipendente e di alto livello per qualità e contenuti. Il governo non è soddisfatto del giornale radio-TV e della sezione documentaristica, non abbastanza sostenitori della propria azione, e questo spiega il tentativo di intervenire per metterli a tacere; del resto, Netanyahu, è sotto processo per fatti simili. Altre iniziative annunciate sono una restrizione della legge del ritorno. Si vuole in particolare abolire il paragrafo relativo ai nipoti che oggi consente di fare l’Aliyah anche a chi non è ebreo; si tratta di un numero limitato di persone, appena alcune migliaia ogni anno, ma dalla forte valenza simbolica, se consideri che la legge del ritorno fu approvata subito dopo la Shoah. Dietro questa decisione c’è un’idea razzista di Israele, in funzione di un paese abitato solo da puri ebrei. La cosa è tanto più assurda, se consideriamo che lo stesso governo vorrebbe incorporare nello stato la Giudea e Samaria, in cui vivono due milioni e mezzo di palestinesi. Infine c’è da ricordare la ministra dei trasporti, Miri Regev, pure del Likud, che vuole fermare i lavori della metropolitana a Tel Aviv. Oppure il ministro della cultura, Miki Zohar, che ha annunciato di voler chiudere ogni rappresentazione svolta durante il sabato, salvo ricredersi poche ore dopo su ordine di Netanyahu.
Possiamo raccontare cosa sta accadendo sul tema della giustizia?
Il ministro, Yariv Levin, è un giovane politico del Likud; a me ricorda Robespierre, per il tono sempre freddo, iracondo e minaccioso, nascosto da una apparente formalità dei toni: lo definirei un fascista in guanti gialli. Appena nominato ministro, Levin ha presentato il suo progetto per la riforma dell’elezione dei giudici, in particolare della Corte Suprema. In Israele la Corte è formata da 15 giudici, e opera sia come la Cassazione italiana, sia come Corte Costituzionale in merito all’ammissibilità delle leggi, il che a volte produce un sovraccarico di lavoro. Anziché discutere una riforma coerente, Levin ha presentato un progetto che cambia la composizione della commissione che nomina i giudici della Corte Suprema, affidandone la maggioranza al governo. In altre parole, il governo potrebbe controllare la nomina dei giudici supremi, ponendo cosí fine al principio della separazione fra i poteri, e stravolgendo il tipo di regime democratico su cui si fonda Israele.
Perché è così importante per il governo riformare la Corte Suprema?
Direi per due motivi. Il primo è che già oggi la Corte Suprema svolge un ruolo fondamentale, in quanto ciascun cittadino può ricorrere direttamente ad essa. In questo modo si è creata una rigorosa giurisprudenza, a tutela delle leggi fondamentali, cha a loro volta hanno supremazia rispetto alle leggi ordinarie. Uno dei criteri elaborati dalla Corte è quello della plausibilità. Significa che se viene adottato un atto, formalmente legale, ma altamente implausibile, o irragionevole, la Corte ha il potere di annullarlo. In questo modo la Corte in passato si è opposta a atti del governo considerati irragionevoli, come per esempio l’espulsione di una donna straniera il cui visto era scaduto, separandola dal figlio minorenne il cui padre è cittadino israeliano. O viceversa, l’espulsione del figlio minorenne separandolo dalla madre straniera ma residente legale. Il secondo motivo è molto personale. Come ho detto molti di questi politici, a cominciare da Netanyahu, hanno molte pendenze giudiziarie, che probabilmente arriveranno alla fine davanti alla Corte Suprema. Il fatto di poter nominare i propri futuri giudici è una forma di garanzia a tutela dei propri interessi, ma certo inammissibile in una democrazia.
C’è poi il caso Deri.
Deri è un politico veterano in passato finito in carcere per corruzione, da ultimo condannato per il mancato pagamento delle tasse. In pretura è riuscito a patteggiare la condanna impegnandosi a rinunciare alla politica attiva, ottenendo così la sospensione condizionale della pena. Secondo il sistema israeliano, un condannato può candidarsi come deputato, ma non fare il ministro, invece una volta eletto Deri ha chiesto e ottenuto ben due ministeri importanti: gli Interni e la Sanità. Non solo. L’accordo all’interno della coalizione è che tra due anni Deri dovrebbe nominato ministro del Tesoro, con il risultato che avremmo un evasore fiscale al controllo delle tasse dello Stato. Deri si è difeso lamentando di essere oggetto di persecuzione dalla Corte Suprema perché è un sefardita, mentre come sappiamo la Corte è a prevalenza askenazita. In realtà si è trattato di un tentativo di sottrarsi alla sentenza e all’accordo che aveva realizzato. Alla fine Netanyahu ha dovuto arrendersi all’ingiunzione della Corte e ha licenziato Deri, ma ha promesso che lo riassumerà appena la legge in questione sarà modificata pro domo sua.
Di fronte alla situazione che lei ci ha descritto, come sta agendo l’opposizione?
L’opposizione di fatto è ancora inerme, colpita dalla profonda sconfitta elettorale. I partiti rappresentati alla Knesset agiscono senza consultarsi, senza una linea comune, senza neanche incontrarsi; è evidente che in questo modo i margini per un’opposizione parlamentare sono molto scarsi.
E nel paese?
Il paese sta mostrando invece la volontà di opporsi a questi tentativi di scardinare la struttura dello Stato. Da alcune settimane ormai ogni sabato sera si organizzano grandi manifestazioni di protesta. Il problema è che i vari Lapid, Ganz, Lieberman, Sa’ar, Michaeli, non hanno neppure trovato il tempo di riunirsi.
Questo governo ha intenzione di rispettare i patti di Abramo?
Certamente Netanyahu vuole mantenere e rafforzare i patti di Abramo, ma essere leader di una coalizione così integralista gli crea problemi. Da ultimo, per esempio, ha dovuto rinviare la visita negli Emirati Arabi, ufficialmente per motivi logistici. È invece andato in Giordania, ed è tornato sostenendo che verrà mantenuto lo status quo attuale nella gestione dei luoghi santi per l’Islam, in particolare il Monte del Tempio e delle Moschee. Come sappiamo, a partire da dopo la Guerra dei Sei Giorni è la Giordania a gestire la spianata, mentre è noto che l’Arabia Saudita vorrebbe prendere il suo posto, come già in passato usurpò alla discendenza hashemita la gestione della Mecca. La dichiarazione di Netanyahu, se da un lato ha rassicurato la Giordania, dall’altro rischia di creare irritazione verso i sauditi, che sono considerati il prossimo paese che dovrebbe aderire ai Patti di Abramo. Un rompicapo di difficile soluzione.
Un’ultima domanda. Secondo lei è concreto il rischio di un pericolo per la democrazia in Israele?
Il vero problema è la lettura riduttiva della democrazia che dà questa maggioranza. La democrazia è intesa come dominio assoluto della maggioranza, senza quei meccanismi di equilibrio e di controllo, oltre che di tutela delle minoranze, che caratterizzano le democrazie avanzate. Israele rischia dunque di degradare al livello di democrazie come la Turchia o l’Ungheria, dove esiste sì un parlamento eletto con diversi partiti rappresentati, ma una persona al comando decide per tutti. La radicalizzazione del discorso religioso rischia inoltre di staccare da Israele cospicue sezioni della Diaspora ebraica.
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4 risposte
Grazie per l’esauriente spiegazione
Finalmente un quadro informato, dettagliato, completo di una situazione tanto complessa quanto disastrosa.
Ho trovato interessante e molto esaustivo il quadro nel merito delle politiche intraprese dal governo. La caratterizzazione dei partiti di destra e dei loro rappresentanti mi è sembrata invece un po’ demonizzante. Forse la sinistra israeliana si dovrebbe chiedere perché ha perso attrattiva nell’elettorato. Le definizioni purtroppo servono a poco
Il professor Della Pergola che dà del fascista a Yariv Levin mi sembra un po’ troppo generoso nei confronti del fascismo.