Il Pigliani è un modello di accoglienza e di cura ai più giovani
Bruno Sed, presidente del Pitigliani, spiega i nuovi obiettivi dell’Istituto dopo che l’assemblea dei soci ha approvato un bilancio su cui il COVID ha fatto sentire i suoi effetti
Bruno, il Pitigliani ha chiuso l’anno di esercizio con assemblea dei soci. Qual è lo stato di salute dell’istituto?
Direi che rispetto agli anni passati è peggiorato, a causa degli effetti economici del Covid. L’istituto vive infatti di canoni di locazione, che a causa della pandemia sono diminuiti; inoltre, poiché la situazione ci ha obbligato a riallocare gli immobili a prezzi più bassi, gli effetti li avremo anche nei prossimi anni. Questo stato di cose ci ha così obbligato a perseguire l’equilibrio contabile, che siamo riusciti a ottenere a costo di una riduzione dei costi, ossia agendo sul personale. Già prima del Covid avevamo rinunciato al responsabile delle attività culturali e poi anche a quello per le attività educative, che abbiamo sostituito con liberi professionisti; infine abbiamo dovuto rinunciare anche alla cuoca. Sono state decisioni prese obtorto collo, ma necessarie, ripeto, per preservare l’equilibrio dell’ente. Un altro problema infine è che il Pitigliani subisce anche una forte tassazione su quegli immobili, che riducono le risorse per le nostre attività.
Quante persone lavorano ora al Pitigliani?
Circa 20 unità, con forme contrattuali diverse, tra amministrativi ed educatori.
E adesso che siete riusciti a fare fronte all’emergenza, qual è la situazione?
C’è una forte volontà di vedersi e riunirsi; fortunatamente le attività rivolte ai bambini sono tornate alla normalità: ad esempio abbiamo fatto il campo estivo.
A proposito di ragazzi: non solo a Roma, in tutto il mondo ebraico italiano ci si pone il problema di far partecipare le fasce più giovani la vita comunitaria. Il Pitigliani ha dei progetti al riguardo?
Abbiamo innovato significativamente la nostra offerta grazie allo staff ed alla nuova coordinatrice, Emanuela Rimini; ad esempio, grazie anche al finanziamento della fondazione Kantor, abbiamo inaugurato un progetto per danza e musica.
E per la terza età?
C’è il gruppo Ghimel, attivo da molti anni. Più in generale, direi che attorno al Pitigliani ci sono tante realtà: c’è il coro Ha-Kol, il progetto memoria, e altro ancora; durante il Covid abbiamo ospitato anche il tempio dei giovani. Il nostro obiettivo è occupare il più possibile l’edificio, con iniziative nostre e altre ospitate. Il Pitigliani infatti per tradizione accoglie le iniziative degli altri enti, come la CER, l’UCEI, le varie associazioni.
Dunque possiamo dire che il ruolo principale svolto dal Pitigliani è sul piano culturale?
In realtà distinguerei tra il fine statutario è l’insieme di attività svolte.
Cioè?
Il Pitigliani ha una mission statuaria chiara: fornire assistenza alla gioventù. Tutto il resto è collaterale, ovviamente la sede è sempre aperta alla comunità, ma sono attività collaterali, per soddisfare esigenze di riunione, che alla fine ci hanno consentito di affermarci come un centro di cultura tra i più conosciuti. Oggi è molto visibile la vocazione culturale, che però non è il nostro core business; è emersa negli anni, e ormai possiamo considerarla certo importante, anche se le nostre risorse sono dedicate ai giovani, perché ripeto che il fine dell’istituto è un altro: aiutare i ragazzi. Per questo, credo che oggi noi siamo un’eccellenza culturale a Roma, perché da noi, nelle varie attività, i ragazzi sono molto seguiti, come da nostra tradizione.
Vogliamo ricordare, sia pure brevemente, le origini del Pitigliani?
L’istituto è nato per iniziativa di un ebreo russo, Poliakov. Storicamente noi siamo sempre stati un ente a vocazione italiana, non solo locale; il Pitigliani era infatti l’orfanotrofio ebraico italiano. Per questo siamo sempre stati un ente autonomo rispetto alla comunità – per esempio non deriviamo dalle varie confraternite del passato. Anche fisicamente, la prima sede dell’ente era al di là del Tevere, a S. Francesco a Ripa, poi negli anni ’30 si acquisì la sede attuale, grazie al legato Pitigliani, da cui prende il nome.
Questo fatto che siete nati per aiutare i giovani, e oggi siete percepiti come centro culturale, che tipo di effetti produce nell’Istituto?
Il Pitigliani è frequentato da due tipi di utenza: i ragazzi e le loro famiglie, da una parte; i fruitori delle attività culturali, dall’altra. Non sempre dialogano, perché la maggioranza delle famiglie dei ragazzi non frequentano le attività culturali.
Prima parlavi di una posizione particolare del Pitigliani nella comunità; che rapporti si sono generati con la comunità?
Almeno all’inizio li definirei problematici.
Perché?
Negli anni successivi del dopoguerra, i nostri frequentatori – ragazzi senza famiglia, o con famiglie profondamente disagiate sul piano economico – sono stati spesso considerati con dileggio dagli ebrei romani, perché erano, appunto, gli orfani, i poveri. Ad esempio i più anziani si ricorderanno ancora che al Tempio i ragazzi del Pitigliani andavano con una mantellina nera, che di fatto li discriminava e ne faceva oggetto di giudizi negativi. Poi, a partire dagli anni Settanta, un gruppo di ebrei romani si sono fatti carico di rinnovare l’istituto. Ricordo soprattutto Roberto Spizzichino, che fu presidente per 30 anni, e che ha traghettato il Pitigliani dall’essere un luogo fatiscente in un luogo più vivibile, una casa famiglia moderna e ospitale. Infine, dopo gli anni 80, l’istituto ha smesso di ospitare ragazzi, che sono stati riportati alle famiglie native. Resta tuttavia, come ho detto, il fine statutario di assistere i giovani ebrei, e questo spiega le tante attività per i bambini, ovviamente senza distinzione di censo.
Quindi, il Pitigliani oggi ha perso la sua particolarità?
Non direi. Questa lunga tradizione che abbiamo ereditato fa sì, infatti, che ancora oggi il Pitigliani sia un luogo aperto anche a chi, per così dire, non si sente per vari motivi del tutto a suo agio negli altri luoghi comunitari; penso, ad esempio alle famiglie “miste”, oppure a tutti coloro che non amavano o non sono abituati a frequentare la comunità. Per tutti loro, il Pitigliani è sempre stato, ed è tuttora, un luogo gradevole e piacevole da frequentare. Diciamo che è rimasta nella nostra storia l’accoglienza.
E dunque, qual è il rapporto tra il Pitigliani e la comunità, oggi?
Se intendi il rapporto con la CER, certo in passato ci sono stati dissidi, che nascono da approcci diversi, come ho cercato di spiegare. Negli ultimi anni però direi che l’approccio è cambiato, anche perché l’attuale presidente CER conosce bene ed è molto vicina al Pitigliani. Direi in definitiva che tutto dipende soprattutto dalle persone. Ormai dai anni i consigli del Pitigliani sono composti da persone attente al dialogo, all’ascolto e all’integrazione con tutta la comunità.
Per il prossimo anno, su quali linee principali continuerete l’attività?
Noi siamo ben determinati a mantenere la nostra identità e la nostra eccellenza. Con un’attività principale orientata all’assistenza ai ragazzi, che cercheremo di migliorare, al top delle possibilità e con le risorse che potremo investire.
Per questo è importante anche aumentare la quota di soci, immagino.
Certo. Attualmente il Pitigliani ha poco meno di 300 soci, ma averne di più – l’impegno richiede poche decine di euro all’anno – certo ci sarebbe di grande aiuto.
Un’ultima domanda. Tu sei anche presidente dell’ospedale, oltre che affermato professionista legale. È complicato esercitare tutte queste responsabilità?
È complicato, certo, ma con un impegno quotidiano e costante è possibile. Tieni conto che le responsabilità richiesta dall’Ospedale e dal Pitigliani sono diverse. Mentre nel primo caso il presidente dell’Ospedale e il consiglio fanno affidamento al direttore generale, che nominano, il quale poi sceglie il direttore amministrativo e quello sanitario, che fanno fronte agli impegni quotidiani, al Pitigliani è più complicato, perché il consiglio fa una vera gestione operativa; paradossalmente guidare il Pitigliani può essere più impegnativo dell’ospedale.
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