Il mio giornalismo? Attenzione al mondo, difesa della laicità, dare voce ai più deboli
Renato Coen, giornalista Sky esperto di esteri, racconta a Riflessi cosa dovremo aspettarci dal mondo nel prossimo futuro
Renato Coen, dopo essere stato responsabile degli esteri di Sky Italia da tre mesi sei tornato a fare il corrispondente, ora da Bruxelles: come è nata questa passione per la politica estera?
In realtà io da ragazzo volevo fare il giornalista, raccontare gli avvenimenti che accadevano nel mondo: il muro di Berlino, il medio oriente. Ero attratto insomma dal quel che accadeva nel mondo, meno dalla politica interna. Così all’inizio ho cominciato a fare cronaca locale e mi piaceva molto, perché fare cronaca significa parlare della nostra vita quotidiana, e ci permette di capire come vivono le persone, la loro vita. Poi mi è capitato di passare a occuparmi degli esteri, perché come t’ho detto era quello che più mi interessava. E così a 30 anni sono stato corrispondente Sky a Gerusalemme dove sono rimasto 6 anni, coprendo la cronaca di tutta l’area, a partire dalle primavere arabe.
E allora cominciamo a vederlo, questo mondo. Partiamo dall’Europa. Siamo un gigante piuttosto fragile, tra difficoltà economica, demografica, epidemiologica. Secondo te i pericoli principali per l’Europa vengono da est, o da sud?
Io credo che l’Europa debba temere di più il pericolo che viene da Est, anche se l’opinione pubblica teme più ciò che arriva da sud. In generale, l’Europa ha un problema: la sua non esistenza politica. Siamo una potenza economica e demografica (abbiamo più abitanti degli USA), tecnologica e industriale. Abbiamo però un grave handicap politico, e quindi anche militare, per cui non riusciamo a incidere sul mondo. Il motivo è che i vari governi europei – che, tranne alcuni eccezioni, sono tutti democratici – esitano a cedere sovranità all’Europa. I politici nazionali cercano consenso elettorale, e questo rallenta il rafforzamento delle istituzioni europee. Per tornare alla tua domanda, io credo che occorra temere la Cina e le provocazioni della Russia, perché per noi sono potenze difficilmente fronteggiabili. La Cina ha una potenza economica enorme, chi la governa non deve rispondere all’opinione pubblica né applicare gli strumenti di confronto che ci sono in democrazia; lo stesso può dirsi per la Russia. In questo modo, le democrazie sembrano più lente a reagire. Prendi l’Italia e la Libia: certo abbiamo perso influenza, d’altra parte Turchia e Russia possono decidere di mandare truppe sul posto in qualsiasi momento, senza passare per una decisione del Parlamento.
Ma allora è vero quello che sostengono i critici delle democrazie, che oggi esse rappresentano modelli di governo troppo lenti e impacciati rispetto ai regimi non (pienamente) democratici?
Fino agli anni 2000 non c’era nessun paese non democratico che poteva paragonarsi a quelli democratici in termini di sviluppo, tecnologia, benessere. Poi, la Cina ha messo in discussione questa formula, perché mostra di riuscire a produrre ricchezza, formando una grande classe media che si sta sviluppando. Detto questo, la mia idea è che in democrazia tutti hanno diritto a parlare, molto semplicemente perché la democrazia è libertà, e non potrei concepire nessun altro sistema migliore di questo; poi, certo, occorre realizzare una democrazia capace di rispondere alle sfide di oggi. Però considera anche questo: in una democrazia è più facile fare le scelte giuste. Voglio dire che le decisioni sono più lente, ma più meditate, perché c’è un continuo confronto; questo alla lunga consente alle democrazie di fare meno errori, di fare le scelte giuste.
Mi dai un giudizio sul G20 gestito dall’Italia del premier Draghi due settimane fa? In generale, come guadano gli altri paesi all’Italia?
Molto semplicemente: gli altri paesi guardano l’Italia sempre allo stesso modo, Draghi o non Draghi. La nostra storia, la nostra tradizione politica, la nostra collocazione geografica fanno di noi un paese di media potenza. In questo, la presenza di Draghi non ha inciso molto, seppure Draghi certo è molto apprezzato e ascoltato. Il G20, per dire, per noi è stato un grande evento, per gli altri Paesi è stato uno dei tanti G20 annuali. La verità, è che in Europa restiamo terza potenza, dopo Germania e Francia.
E sull’ambiente? Come giudichi la cop 26 di Glasgow?
Mi pare che sia stato un fallimento. Chi prende le decisioni lo fa preoccupandosi di chi c’è oggi, non di chi ci sarà domani. In parte si può comprendere. Oggi si parla di tradimento dell’India, che riduce l’inquinamento da carbone ma non lo annulla. Devi però considerare che oggi, per molti paesi, avere energia serve a vivere, come ad esempio azionare la pompa per estrarre acqua da un pozzo. Il problema principale è che manca il coraggio politico da parte dei paesi ricchi, perché anche noi non ce la sentiamo di sopportare i costi di una vera transizione ecologica.
Veniamo al medio oriente. In Israele, con il governo Bennet, sembra riavviarsi una prospettiva diversa rispetto alla stagione di Netanyahu. Tu sei stato corrispondente molti anni a Gerusalemme. Come ti sembra ora la situazione?
Purtroppo non m’aspetto nulla, perché non voglio rimanere deluso come negli ultimi 25 anni. Credo che ci sia un problema di base: Bibi non voleva prendere rischi, voleva conservare il potere e non aveva voglia di fare accordi con i palestinesi. Allora ha fatto una mossa intelligente: si è alleato all’asse sunnita del mondo arabo, aprendo canali di pace con altri paesi: e così sono nati gli Accordi di Abramo. Adesso il governo Bennet parte dalle relazioni lasciate in eredità dal governo precedente, ma deve dimostrare di avere il coraggio che è mancato a Netanyahu. Ce l’avrà? Io credo di no, perché si poggia su una coalizione molto eterogena, unita dall’odio verso Netanyahu. Del resto, i governi di coalizione, in generale, hanno grandi difficoltà, appena provano a fare qualcosa non reggono.
Ma secondo te l’ipotesi di due Stati per due popoli è ancora credibile?
Una risposta
Intervista interessante. Purtroppo molti refusi.